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ALESSANDRO VII
Fabio Chigi

Nato a Siena il 13.II.1599

Eletto papa il 7.IV
e incoronato il 18.IV.1655
Morto il 22.V.1667

Il suo papato fu l'apice del Barocco

Il conclave
Fu un conclave inconsueto quello che si tenne tra il gennaio e i primi di aprile del 1655; non c'era il solito gruppo di cardinali nipoti del papa precedente, capace di controllare la situazione. L'Astalli da solo non riuscì a costituire una fazione, perché nessuno gli "doveva" qualcosa; il gruppo più consistente di cardinali si sentiva libero finalmente e "apparentemente" di decidere. Volevano lasciarsi guidare nella scelta solo da fini religiosi, in una posizione di neutralità politica, respingendo gli influssi degli Stati stranieri; l'ambasciatore spagnolo li soprannominò lo "squadrone volante". Ma in pratica non sapevano chi scegliere. La candidatura di Giulio Sacchetti aveva sempre il veto della Spagna, come quella di Fabio Chigi l'opposizione del Mazzarino; la situazione si sbloccò solo quando il candidato francese inviò personalmente una lettera al ministro di Luigi XIV per indurlo a togliere il veto all'ex segretario di Stato di Innocenzo X. E così il 7 aprile 1655 fu eletto Fabio Chigi.

La vita
Era nato il 13 febbraio 1599 a Siena, da una celebre famiglia di banchieri; aveva rappresentato la Santa Sede a Münster, durante le trattative di pace alla fine della guerra dei Trent'Anni, e in quell'occasione si era preso le antipatie del Mazzarino. Oltretutto non aveva ottenuto granché dalla sua arte diplomatica in quella circostanza e aveva dovuto assistere inerme a quanto si compiva ai danni della Chiesa. Innocenzo X lo aveva comunque creato cardinale nel 1652, chiamandolo a Roma dalla sua nunziatura di Colonia e gli aveva affidato la Segreteria di Stato alla morte di Panciroli. Fu consacrato papa il 18 aprile e assunse il nome di Alessandro VII in memoria di Papa Alessandro III che aveva combattuto contro l'imperatore Federico II (Barbarossa) per preservare l'indipendenza della Chiesa. Alessandro era divenuto in realtà un nome poco adatto dopo Alessandro VI Borgia. Nondimeno, quando nella Piazza di San Pietro uno vede il nome di Alessandro VII ripetuto così tante volte e i sei (rimanenti) giganteschi suoi stemmi, non ha dubbio che Fabio Chigi si stesse ispirando ad Alessandro Magno quando decise di chiamarsi anch'egli Alessandro.

Papa
Era un uomo di profondi sentimenti religiosi, animato da un innato sentimento di umiltà; a quanto riferiscono le cronache, non avrebbe voluto portarsi in S. Pietro per la rituale adorazione dei cardinali e, durante la cerimonia, tenne tra le mani un grande crocifisso, a significare che l'adorazione era rivolta a Cristo e non alla sua persona. Per la presa di possesso del Laterano non volle archi trionfali e sfarzo nelle strade; ostentava insomma un'edificante pietà e un dispregio per le cose umane, principalmente per il potere. A questo scopo dal Bernini si era fatto costruire una bara, che teneva nella camera da letto; sul suo scrittoio faceva bella mostra di sé un teschio. E si dichiarò antinepotista.

Poi gli cominciarono a dire "che non era conveniente che parenti del papa vivessero da privati cittadini", come ricorda il Ranke, che "non si poteva impedire che a Siena rendessero onori principeschi alla sua casa", perché poteva apparire un oltraggio al granducato di Toscana. Il gesuita Oliva, gran predicatore, "arrivò a dire che il papa avrebbe commesso un peccato se non avesse chiamato a sé i nipoti"; insomma correva il rischio di dannarsi l'anima. E poi doveva adattarsi all'andazzo del tempo, doveva dare il buon esempio, altrimenti che razza di papa sarebbe stato!

Alessandro VII finì per presentare la questione nel concistoro dell'aprile 1656: era opportuno o meno che negli affari della Curia un pontefice si servisse dei parenti? La risposta non poté che essere affermativa; funzionava anche su un piano teologico, per quanto il Pallavicino consigliò il papa di stabilire i limiti entro cui i parenti dovessero contenersi. Si ripetevano gli scrupoli di Urbano VIII. Comunque, salvate le apparenze, fu dato il via alla "calata" da Siena, ovvero alla "processione" come la chiamò Pasquino, e Alessandro VII ne rimase travolto e coinvolto forse oltre le sue intenzioni. Se si vuole poi pensare che fino ad allora avesse solo "recitato", diciamo che finì per ottenere un crisma di legalità per un'istituzione così scandalosa e poté mettersi l'anima in pace.

Suo fratello, don Mario, ottenne le cariche più redditizie, dalla sovrintendenza dell'Annona all'amministrazione della giustizia in Borgo. Il nipote Flavio, dopo il noviziato presso i Gesuiti, divenne cardinale e affiancò nella Segreteria di Stato Giulio Rospigliosi, badando essenzialmente ad accaparrare rendite ecclesiastiche che in breve raggiunsero i 100.000 scudi. Un altro nipote, Agostino, fu scelto invece per iniziare la famiglia principesca dei Chigi; rimasto allo stato laicale, da castellano di Castel S. Angelo ricevette via via splendidi possedimenti, come Ariccia e il palazzo di famiglia in piazza Colonna, e si sposò con Maria Virginia Borghese.

E così Alessandro VII, una volta fattasi prendere la mano dal nepotismo, non riuscì più a trattenersi, estendendo i suoi favori anche a lontani parenti, come ad esempio quel commendatore Antonio Bichi che ebbe la porpora cardinalizia. Fu una vera e propria esclusiva scalata alla ricchezza, mentre le motivazioni "politiche" che avrebbero dovuto giustificare il nepotismo, per dar modo al papa di trovare tra i parenti un uomo di fiducia nel governo della Chiesa, risultarono accantonate. Nessuno aveva l'autorità per assumersi certe beghe. E al papa stesso non interessava il papato come potere politico.

Così tornarono in auge le congregazioni di Stato, accantonate da precedenti pontefici, con capacità decisionali su questioni di ordine pubblico, dai problemi inerenti la guerra e la pace alle tasse e ai problemi internazionali. Il papa avrebbe badato alle questioni religiose e alle opere di pietà, come infatti fece nel maggio del 1656, quando su Roma si abbatté la peste. Con grande spirito di carità assistette gli appestati, sorvegliò gli approvvigionamenti e, per isolare il contagio, eresse un ospizio nell'isola di S. Bartolomeo.

Si rivelò in papa Chigi l'amore per la vita tranquilla, che trovava nella pace di Castel Gandolfo, dove si ritirava due mesi all'anno d'estate, ma anche nei pomeriggi romani ascoltando i poeti che leggevano alla sua corte le loro opere. Finì probabilmente per mettere da parte quella bara e quel teschio e si compiacque di un po' di mondanità. E a questo provvide l'arrivo di Cristina di Svezia; dopo aver rinunciato alla corona si era convertita al cattolicesimo (e si pensò che anche altri sovrani avrebbero potuto seguire il suo esempio). Accettò ben volentieri l'invito fattole dal papa di trasferirsi a Roma.

Per il suo arrivo a Roma nel 1655 Alessandro fece decorare dal Bernini la facciata interna di Porta del Popolo. "Felici Faustoque Evento" si può leggere in memoria della sua entrata, ma sopra la lapide a Cristina i sei monti rendono onore ad Alessandro VII.

La principessa ebbe un'accoglienza imponente, facendo ingresso in città in una sontuosa carrozza costruita su disegno del Bernini; il papa la ricevette in concistoro e le conferì la cresima con il nuovo nome di Alessandra. Ma questa donna avrebbe procurato gioie e dolori ad Alessandro VII; colta, orgogliosa ed eccentrica, capì di poter dominare il campo quanto a mondanità nella Roma barocca. Non si può dubitare della sincerità dei suoi sentimenti religiosi, anche se non mancò di criticare le pratiche esteriori di certi culti, e comunque seppe sfruttare la sua posizione e godersi la vita come volle. A Cristina di Svezia si è potuta così adattare la famosa frase di Enrico IV, come giustamente ha sottolineato Cesare D'Onofrio nel libro su di lei, Roma vai bene un'abiura. Ci guadagnò Cristina a farsi cattolica, abiurando il protestantesimo e lasciando la noiosa e gelida Svezia per una spensierata e calda città come Roma.

Dal palazzo Farnese, ove pose la sua prima dimora per gentile concessione del duca di Parma, Cristina gestì infatti la vita spensierata della città, diventando la "regina delle feste del gran mondo romano", come ricorda il Castiglioni; "ricercata e acclamata dovunque, la sua vanità non conobbe più limiti. Ricevimenti fastosi, tornei, concerti, mascherate furono organizzati in di lei onore dall'alto clero e dalla nobiltà romana. Gli studenti di Propaganda Fide la salutarono con omaggi stilizzati in ventidue lingue; il gesuita Atanasio Kircher le presentò un piccolo obelisco con un'iscrizione elogiativa in ventitré lingue; e l'università di Roma non volle essere da meno nell'onorare l'ospite illustre".

Tra le manifestazioni più fasto se si ricorda il Carnevale del 1656, che furoreggiò in un tale clima d'immoralità da far pentire Alessandro VII di aver invitato a Roma quella "pecora smarrita" che, tornando nell'ovile di S. Pietro, avrebbe dovuto essere d'esempio a conversioni in massa. Erano solo sogni. In realtà gli stessi cardinali le giravano attorno e stavano al gioco, dal Chigi all'Azzolini, divenuto suo amico di fiducia e ipotetico amante.

Fu anche una specie di Mata Hari del tempo, macchinando col Mazzarino una conquista del Napoletano, tradita in questo dal suo scudiero Gian Rinaldo Monaldeschi, che aveva venduto agli Spagnoli i segreti piani della donna; non ci pensò due volte a farlo uccidere. Ma furono seccature diplomatiche a non finire per Alessandro VII così amante della tranquillità, per cui respirò un po' quando Cristina si allontanò un paio di volte da Roma per sistemare la sua situazione finanziaria in Svezia dopo la morte del padre Gustavo Adolfo. Quando tornò, si mostrò più tranquilla, meno eccentrica; si stabilì nel palazzo Riario e si dedicò alla vita intellettuale, dove trovò infine quelle soddisfazioni che la politica non le aveva dato. Il suo salotto sarebbe stato frequentato da letterati ed artisti istituendo una specie di Accademia, progenitrice di quella famosa che, un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1689, avrebbe preso il nome di Arcadia.

Alessandro VII intanto, una volta morto il Mazzarino nel 1661, si accinse a subire come "sovrano" pontefice un ennesimo smacco in campo internazionale; se la dovette vedere direttamente con Luigi XIV e naturalmente ebbe la peggio. A monte dello scontro c'erano il sogno del papa di una lega di Stati cattolici contro i Turchi e, d'altra parte, le concrete manovre del re Sole di aizzare la Sublime Porta a muover guerra all' Austria. Occorreva un pretesto per tappare la bocca al papa e togliergli dalla testa i santi appelli per la crociata. E a procurarlo al re Sole fu il suo nuovo ambasciatore a Roma, il duca di Créqui.

Questi si presentò nella città nel giugno del 1662 con 200 armati, pretendendo da parte del pontefice onori superiori a quelli riservati agli altri ambasciatori; chiese che l'immunità diplomatica, già spettante alla sua abitazione, il palazzo Farnese, venisse estesa a tutta la zona circostante. Il suo seguito ostentò un contegno insolente e si capiva che sarebbe stato prima o poi inevitabile un incidente diplomatico. Lo si ebbe la sera del 20 agosto.

Scoppiò una rissa tra alcuni soldati còrsi al servizio del papa, che erano di stanza nei pressi del palazzo Farnese, e tre Francesi; dalle parole si passò a vie di fatto. La schiera còrsa s'ingrossò e alcune archibugiate arrivarono a colpire la carrozza dell'ambasciatore di ritorno a Palazzo; ne rimase vittima un paggio.

La Curia fu pronta a dare soddisfazione all'ambasciatore, che invece colse la palla al balzo e lasciò Roma, dichiarando che era in pericolo la sua sicurezza e rifiutando ogni tentativo di riconciliazione. La reazione di Parigi fu immediata; il nunzio pontificio venne bandito dalla Francia; Avignone e il contado Venassino furono occupati e annessi alla Francia. Si allestiva inoltre un esercito per una spedizione punitiva contro lo Stato pontificio.

Arrivò benefica la mediazione della Spagna, ma si giunse all'umiliante pace di Pisa nel febbraio del 1664. Il cardinale Flavio Chigi, come nipote del papa, e il cardinale Imperiali, in qualità di governatore di Roma, sarebbero dovuti andare a Parigi per presentare le scuse ufficiali al re Sole; i Corsi non sarebbero stati più assunti dal papa al suo servizio, nonostante un processo per direttissima avesse già condannato a morte due della guardia coinvolti nell'attentato; infine, davanti alla caserma dei Corsi sarebbe stata eretta una piramide con una scritta ad eterna memoria del loro "delitto". In più Castro passava di nuovo ai Farnese; era la condizione per riavere Avignone. Per il papato insomma una pace avvilente, ed era la prova dello scarso peso politico che aveva ormai lo Stato pontificio nel contesto internazionale.

Alessandro VII poté consolarsi seguitando a far bella Roma. Fece restaurare l'università della Sapienza, abbellì parecchie sale del Quirinale e della villa di Castel Gandolfo, sistemò la piazza del Pantheon e fece erigere in piazza della Minerva l'obelisco sul dorso di un elefante di marmo.


Ci sono più obelischi Egizi a Roma che in tutto il resto del mondo! La maggior parte di loro sono sormontati dai monti con la stella, ma di solito i monti sono tre, in memoria di altri papi (soprattutto Sisto V, ma anche Clemente XI e Pio VII).
Solo l'elefante in Piazza S. Maria sopra Minerva regge un obelisco sormontato dai sei monti di Alessandro VII. Fu disegnato dal Bernini (l'elefante è opera di Ercole Ferrata). Il piccolo monumento conserva tuttora lo stemma di Alessandro VII. Ma per assicurare ai posteri la memoria del papa Bernini decorò la gualdrappa dell'elefante con la quercia e i sei monti. Per un esempio dove è sopravvissuta la sola decorazione vedi Ferrara.

 

Vide infine completato il gigantesco colonnato di S. Pietro: Alessandro VII, che si interessava di arte, aveva revisionato personalmente con Bernini le possibili soluzioni per completare Piazza San Pietro. Ma s'interessò anche di opere militari e finanziarie, come la costruzione dell'arsenale di Civitavecchia e la zecca presso il giardino del Vaticano.

Morì il 22 maggio 1667 e fu sepolto in S. Pietro nel grandioso mausoleo che gli eresse il Bernini. Lo consumò il solito "mal della pietra", che già aveva tormentato altri papi in passato, e Pasquino lo ricordò così:

Consolati, Alessandro:
se la tua dura sorte
in fra le pietre t'ha condotto a morte, 
morte propria di ladri e non d'eroi, 
sogliono i pari tuoi
da stato sì giocondo,
solo a furia di pietre uscir dal mondo.


 L'ansia di Alessandro VII di essere ricordato

Alessandro VII temeva che le sue insegne potessero non sopravvivere ai rischi del tempo e fece creare agli artisti diverse decorazioni con i suoi temi, ritenendo che l'arte sarebbe sempre stata rispettata. Il suo stemma pertanto si ritrova dappertutto a Roma, non solo sugli edifici che fece erigere in prima persona ma anche su quelli che restaurò appena.
Il suo stemma è costituito da sei monti con una stella sopra.


Balaustre


 La foto a sinistra mostra Santa Maria dell'Assunzione in Ariccia, una cittadina vicino ad Albano dove i Chigi avevano un grande palazzo (e dove quasi tutto era loro); questa chiesa è una delle opere migliori di Bernini. A destra la chiesa di S. Caterina nel centro di Roma.

 

Interni di Chiese

Un'altra maniera di preservare il ricordo del papa fu quello di decorare con i sei monti e la stella l'interno delle cupole. Qui sopra gli interni di Sant'Ivo del Borromini e di S. Maria dell'Assunzione in Ariccia del Bernini.

Esterni di Chiese

Sebbene S. Ivo fosse stata costruita sotto i suoi predecessori e la sua forma si ispirasse all'ape di Urbano VIII, Alessandro VII fece aggiungere i suoi sei monti con risultato infelice. La chiesetta semplice di S. Rita (un tempo sotto la scalinata del Campidoglio e quindi ricostruita vicino al Teatro di Marcello) ha miglior riuscita.
Un suo stemma è visibile sulla facciata della cinquecentesca chiesa di Santa Maria in Trivio.

Incontri inaspettati


Le sei montagne e la stella si possono ritrovare in un pilone vicino alla fontana dell'Acqua Paola o in una delle colonne sul lato sinistro del Pantheon (su di un'altra c'è l'ape di Urbano VIII) o in un candelabro in S. Pietro.

Alessandro VII decise anche di spostare le porte bronzee della Curia Romana a S. Giovanni in Laterano. Poiché le porte della Basilica erano più grandi di quelle della Curia, Borromini le incluse in una cornice bronzea decorata con stelle e ghiande (in riferimento alla quercia).

In Santa Maria del Popolo


La chiesa, costruita da Sisto IV, conserva parecchi stemmi con il rovere del papa. L'interno fu quasi interamente rinnovato dal Bernini che vi aggiunse molti stemmi di Alessandro VII. Sono particolarmente interessanti quelli degli organi dove Bernini non solo associò gli stemmi agli angeli che li sostenevano ma anche inserì fra le canne dell'organo la quercia dei Chigi. Il pavimento sotto l'altare è decorato alternativamente con monti e querce. La cupola della cappella Chigi è sormontata dalle montagne con la stella.

Santa Maria in Via Lata

Via Lata è oggi Via del Corso. Santa Maria in Via Lata è una chiesa molto vecchia (con uno stemma di Innocenzo VIII su di un lato): la facciata fu rinnovata da Pietro da Cortona. La chiesa si trova vicino al Palazzo Pamphylj ed il suo rinnovamento cominciò sotto Innocenzo X Pamphylj; ma il papa morì prima che venissero completati i lavori ed il successore Alessandro VII si prese i meriti. In questo caso però il suo stemma disturbava la gloria dei vicini Pamphylj ed oggi non è più lì.
Il ricordo di Alessandro VII è nondimeno, sebbene in maniera meno appariscente, assicurato dai monti con la stella sulla porta principale e dal suo nome sull'arco della loggia,

 
La Villa

Le grandi famiglie del XVII secolo avevano 3 palazzi e i Chigi non facevano eccezione. Il primo in centro a Roma: Palazzo Chigi in Piazza Colonna (lo sfondo della pagina è la decorazione del piccolo balcone); il secondo appena fuori le mura: Villa Chigi, fuori di Porta Pia (vedi foto sopra); il terzo nel feudo di famiglia (Ariccia).


Ritroverai le montagne e la stella dei Chigi anche alla Fontana dell'Acqua Acetosa.