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“Di Roma ci si innamora molto
lentamente ma per sempre”
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“Quando Roma
finirà, tutt’er monno s’ha dda
scapicollà”
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~ RITRATTI LETTERARI (e non) DI ROMA ~ |
Iniziamo con alcune pennellate di illustri personaggi.
“Prima fra tutte le città, casa degli dei, è l’aurea Roma” scriveva tre secoli d.C. Ausonio, poeta latino originario dell'odierna Bordeaux. Da oltre 2500 anni Roma è infatti la più importante città del mondo dal punto di vista politico, religioso e artistico e da sempre vi approdano scrittori ed artisti di tutto il mondo. Dante Alighieri non può non parlare di Roma nella sua Commedia. Leggi QUI ciò che Dante vide a Roma. Michel Eyquem de Montaigne scrisse nel 1580: “Se si paragona la sua grandezza al numero e all’affollamento delle case, Roma non raggiunge un terzo della grandezza di Parigi. Tuttavia per numero e vastità di piazze e per bellezza di abitazioni e di strade, Roma la vince di gran lunga sulla capitale francese”. Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, altro filosofo e pensatore politico francese, nonché viaggiatore, disse invece, nel 1729, che “Roma è sempre, in un modo o nell’altro, metropoli d’una gran parte dell’universo. Un tesoro immenso, messo insieme, di cose uniche... Ognuno vivendo a Roma crede di trovarvi la sua patria”. Fra i Tedeschi bisogna “accontentarsi” delle parole che il poeta-drammaturgo-romanziere-scienziato Wolfgang Johann Goethe disse nel 1786: “Altrove bisogna andare a cercare quello che più importa; qui a Roma ne siamo premuti e soverchiati. Che uno vada o stia, sempre gli si offrono quadri e paesaggi d’ogni genere e maniera, palazzi e rovine, giardini e deserti, lontananze e vicoli, casupole e stalle, archi trionfali e colonne, il tutto spesso così vicino e pigiato insieme che si potrebbe riportare sopra un solo foglio di carta. Per descriverlo ci vorrebbero cento stili d’acciaio...”. Leggi QUI ciò che Goethe vide a Roma. Byron, che visse in Italia tra il 1817 e il 1823, compone una sorta di guida poetica d’Italia nel IV canto del suo Childe Harold’s Pilgrimage; e ovviamente molti versi sono dedicati alle bellezze di Roma. Leggi QUI ciò che Byron vide a Roma. Nel 1846, l’inglese Charles Dickens davanti al Colosseo disse: “Osservarlo qui mentre si sgretola, osservare le sue mura e i suoi archi coperti di vegetazione, i suoi corridoi aperti alla luce del giorno, le alte erbe che spuntano nei suoi portici... osservare tutto questo vuol dire vedere dinnanzi a sé lo spettro dell’antica Roma”. Leggi QUI ciò che Dickens vide a Roma. Tra gli scrittori americani, ricordiamo Mark Twain (1835-1919): “Dalla cupola di S. Pietro si possono vedere tutti i luoghi e i monumenti più importanti di Roma... si domina un panorama vario, esteso, di grande bellezza e storicamente più illustre di qualsiasi altro in Europa...”. Leggi QUI ciò che Twain vide a Roma.
Henry James, che visitò l’Italia parecchie volte tra il 1869 e il 1909, nel
1873 trascorse parecchio tempo a Roma e pubblicò su periodici Americani ampi
resoconti del suo soggiorno. In quegli anni Roma era soggetta a rapidi
sconvolgimenti a causa del suo nuovo ruolo di capitale del Regno d’Italia, ed
Henry James, sebbene acceso sostenitore del nuovo governo, tuttavia non poté
fare a meno di notare che stavano per essere cancellati alcuni degli aspetti più
pittoreschi della Roma papale. William Dean Howells (1837-1920), il romanziere realista trascorse diversi mesi a Roma: nel 1908 pubblicò Roman Holidays and Others. Leggi QUI ciò che Howells vide a Roma. Tra gli innumerevoli autori italiani, Pier Paolo Pasolini (1992-1975): “... stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo...”. Questa, invece, la voce del grande poeta spagnolo contemporaneo Rafael Alberti: “Roma tanto agognata, in te mi tieni, in te mi trovo, e ti ritrovi in me! Mi dilato o assottiglio per vie e piazze del quartiere in cui vivo, accanto al fiume...”. Noi contemporanei sappiamo che la città eterna conta oggi milioni di abitanti, ma nel ’700 non erano rare frasi come quella di Charles de Brosses: “Si dice che Roma possa contenere centoquarantamila anime”. Infine, nella monumentale, famosa e consultatissima Storia della città di Roma nel Medio Evo, scritta nel 1872 da Ferdinand Gregorovius (insigne storiografo tedesco, nato in Prussia nel 1821 a Neidemburg e morto a Monaco nel 1891), si può leggere: “Roma vive oggi un momento analogo della sua esistenza storica: anche oggi una caduta e una rinascita, una metamorfosi interna ed esterna che già comincia a compiersi”. Queste parole vanno proprio bene per Roma: le sono andate bene e le andranno bene in ogni stagione della sua vita. E, come si sa, quando morirà Roma morirà il mondo oppure, per dirla con un proverbio romanesco, quando Roma finirà, tutt’er monno s’ha dda scapicollà. Roma ha una popolazione in continuo ricambio, si
distrugge e si rinnova ogni giorno, cambia un bel po’ della sua
pelle ogni vent’anni, è varia e confusa, ha un traffico intensissimo
e chiassoso, è festosa, smargiassa, violenta, cupa, sontuosa,
pittoresca, disperata, di piacevole clima, e usata nei modi più
diversi.
Come ha scritto Hans Christian Andersen, “ogni giorno di viaggio nei dintorni della città è un’incantevole fiaba”. Qualche anno fa s’è accesa una polemica tra
scrittori: chi diceva di amare Roma, chi diceva di trovarla
insopportabile; si sono scritti articoli e perfino libri: ma, si sa,
le persone chiacchierate - e Roma, più che una città è una persona -
sono spesso quelle che contano, che coinvolgono.
Per quanto riguarda il vino lasciamo la parola a Giuseppe Gioachino Belli, grande poeta romano: “È bono asciutto, dorce, tonnarello, solo e cor pane in zuppa, e, si è sincero, te se confà allo stommico e ar ciarvello. È bono bianco, è bono rosso e nero; de Genzano, d’Orvieti e Vignanello: ma l’este-este è un paradiso vero!”. Oggi forse non tutto è così, ma vale tentare. Ma torniamo al turista. Dirà di essersi soffermato tante volte a guardare il Tevere. Diciamolo subito: il Tevere non è bello, né biondo: è nocciola, screziato nei toni più scuri. È un fiume che amava molto diventare gonfio e violento. Nei suoi Diari romani Gregorovius parla di una piena del 31 dicembre 1870 che vale la pena di sentire: “Il 26 traboccò il Tevere con spaventosa violenza, e metà di Roma è sott’acqua. L’onda salì improvvisamente alle cinque ore del mattino e presto coprì il Corso e penetrò nella via Babuino fino verso piazza di Spagna... il Ghetto, la Lungara, la Ripetta hanno patito molto... La vista delle strade in cui canotti navigano come a Venezia era singolare; i lampioni e i lumi versano sull’acqua bellissimo effetto...”. Oggi, quando è scirocco, “fiume”, come dicono familiarmente i Romani, puzza; ma quando è tramontana ha ancora qualche briciola delle antiche bellezze, per poche ore diventa del colore d’oro spento degli interni delle chiese della Roma barocca. Fino a non molti anni fa, nel giorno del suo compleanno, che cadeva ai primi di gennaio, un belga, che venne a Roma nel ’45 e ci restò, soleva buttarsi dal Ponte Cavour per un augurale tuffo: Mr. O.K., cosi lo chiamavano i fiumaroli, era del ’99... Ma guardare il Tevere, è guardare la storia di Roma: una gran parte della Roma importante, dall’Ara Pacis a Castel S. Angelo, vi si specchia, per non dire dell’Isola Tiberina che va goduta in un tramonto di quelli che Stendhal diceva color arancio, per non parlare del soave monticello dell’Aventino, che regala al fiume il suo verde solenne. Ma come sono i Romani?Romani si fa per dire: di Romani da tre generazioni, ce n’è pochi.A Roma vengono da tutte le parti, come sono venuti da tutte le parti, un tempo, i suoi marmi colorati, i porfidi rossi egiziani come il vermiglio marmo greco o l’oltremarina basanite o l’alabastro di Palombara. Tant’è che anche il Romano che non ha viaggiato sa trattare con tutto il mondo con non minor sagacia di Marco Polo. È curioso sapere cosa ne pensava il veneziano Giacomo Casanova sulle
“qualità” che era necessario possedesse chi voleva stare a Roma e
farvi fortuna: “Occorre essere flessibili,
insinuanti, grandi dissimulatori, impenetrabili, compiacenti,
sovente ignobili, falsamente sinceri. Bisogna sempre far finta di
sapere meno di quello che si sa e parlare con un solo tono di
voce”.
Dentro Roma, c’è uno Stato, piccolo ma forte: il Vaticano. I suoi abitanti sono ben pochi, gendarmi e guardie svizzere compresi. I suoi confini sono il colonnato di S. Pietro, via di Porta Angelica, piazza Risorgimento, via Leone IV, via della Sacrestia e viale Vaticano; sulle Mura Leonine c’è il Passetto: più di 400 m di "corridoio", che serviva ai papi per correre, nei momenti di tensione, velocemente al sicuro nel ben difeso e solido Castel S. Angelo. E ugualmente dentro Roma c’è il Parlamento, con i suoi ormai innumerevoli deputati e senatori, c’è il Quirinale, col Presidente della Repubblica, ci sono le sedi centrali dei partiti, si prendono le decisioni politiche più importanti, si decidono le sorti del Paese. Di Roma, in questi ultimi anni, hanno però fatto
scempio: sono sorte decine di borgate, in clamoroso oltraggio al
verde pubblico, nella condiscendenza di ignobili
speculatori.
È stato detto che Roma “è la più bella città del mondo con la più brutta periferia del mondo”. Paragonando questa città a un corpo umano, potremmo anche dire che ha una splendida testa, un tronco un po’ difettoso ma ancora passabile e degli arti mostruosi. Cosa ne sarà di Roma, quando, fra una ventina d’anni, avrà cambiato ancora faccia? A proposito di facce e di busti: i busti del
Pincio, il Collis Hortulorum dei Romani, hanno cambiato
faccia più volte, come dice Italo De Tuddo: “Pio IX, tornato a Roma, trova dei busti 'politicamente
sospetti'... la faccia di Alfieri fu
mutata a colpi di scalpello in quella di Vincenzo Monti; lo scultore
Achille Stocchi fu incaricato nel 1860 di alterare i busti di
Savonarola, Caio Gracco e Pietro Colletta. Savonarola diventò Guido
d’Arezzo “modificando un poco l’abito domenicano” (come si legge
nelle disposizioni del contratto che affidava la commissione), Caio
Gracco diventò Vitruvio “modificando i capelli, facendo la testa
calva e qualche ruga al viso”, Colletta, persa la parrucca, diventò
Plinio il Vecchio...”.
La bella basilica di S. Clemente (nei suoi sotterranei esistano ancora i tempietti mitralici dove gli iniziati mangiavano carne di gallina e bevevano artigianali allucinogeni in onore del dio indo-iraniano) è contornata e afflitta dal traffico del Colosseo, e il Colosseo stesso continua a reggersi perché, quando lo hanno costruito, hanno pensato bene di appoggiarlo su una ciambella grande e grossa come esso, di pietra e tufo. Ingolfato tra attichetti - adattati alle esigenze
di sofisticati stranieri o cinematografari che li prendono in
affitto ammobiliati, pagandoli quanto, in altri luoghi d’Italia,
occorrerebbe per avere in locazione una reggia appena decaduta e
ancora fresca di addobbi e di dispense - c’è il piccolo campanile
della chiesa di S. Benedetto in Piscinula a Trastevere, dove suona
la più antica campana romana (nacque verso lo seconda metà dell’anno
Mille).
Oggi le catacombe ebraiche (ce ne furono sei, anteriori a quelle cristiane, come del resto gli insediamenti ebraici a Roma furono anteriori a quelli cristiani, per via del traffico d’affari tra i porti del Medio Oriente e quelli di Pozzuoli e Ostia) oggi sono dimenticate se non per qualche saggia passeggiata di studiosi. Eppure sono affascinanti nei loro ornamenti di palme e di candelabri dalle sette braccia, nella loro assoluta mancanza di “ritratti”, nel modo consono alla religione ebraica. Le fontane di Roma d’inverno hanno spesso aspetto sonnacchioso e sporco, ma la suggestione delle forme barocche, ricche di felicissime immagini, resta. La Roma barocca, berniniana, è una città di fontane. Ma l’acqua fa pensare al verde: e che rimpianto, allora, per la Roma fiorita di giardini stupendi e di ville suburbane, con quella Porta del Popolo, col suo obelisco e le due chiese che fanno da guardia alle tre strade barocche, il Babuino, il Corso e Ripetta, che faceva scrivere solennemente all’anonimo compilatore di una guida settecentesca “annuncia la città di Roma a coloro che vi giungono dalla Francia o dalla Germania per la strada di Firenze”! Adesso Roma è annunciata da tante porte, da tanti simbolici ingressi, congestionati, movimentati come quelli di tutte le grandi città. Ingressi che ne annunciano la beltà, la perfidia, la gioia, i pericoli. Ma a chi dicesse che mai a Roma s’erano viste tante aggressioni, rapine, violenze e tanti danni alla tranquillità, bisognerebbe regalare il diario di un abate del ’700, Francesco Valesio, che ci dà notizie di una Roma dove si bastonano da mattina a sera, trionfano gli scippatori, la notte porta ruberie, violenze a stranieri e risse di cocchieri, dove i bambini vengono abbandonati e lacerati dai cani, e i banditi si danno coltellate in chiesa. La vecchia Roma, la nuova Roma (ma quest’ultima è già quasi vecchia) e la Roma che ci sarà. Lasciamo quindi ancora una volta la parola a Ferdinand Gregorovius: “La vecchia Roma tramonta; tra vent’anni ci sarà qui un altro mondo”. |