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NICCOLO’ V
Tommaso Parentucelli

Nato a Sarzana, Pisa, nel 1397

Eletto papa il 6.III
e consacrato il 19.III.1447
Morto il 24.III.1455


Primo e vero papa umanista e rinascimentale

Il conclave per eleggere il successore di Eugenio IV si svolse per la seconda volta nel convento dei Domenicani di S. Maria sopra Minerva; i 18 cardinali presenti a Roma vi entrarono la sera del 4 marzo 1447 e due giorni dopo, la mattina del 6 marzo, avevano già terminato i loro lavori. Fu eletto il cardinale Tommaso Parentucelli, arcivescovo di Bologna; nativo di Sarzana, era stato elevato alla porpora cardinalizia da soli tre mesi per i suoi meriti nella conclusione del concordato con i principi di Germania ed aveva solo 49 anni.
Si trattò di una nomina inattesa, tanto che i Romani, convinti che l’eletto fosse Prospero Colonna, secondo la tradizione ne avevano saccheggiato i ricchi appartamenti; saputo il nome del vero prescelto, ripeterono l’assalto nella casa del neopontefice, ma il frutto del bottino fu scarso. 

Orfano di padre, il Parentucelli aveva studiato a Bologna, dove era stato segretario del cardinale arcivescovo Albergati, al cui seguito in diverse ambascerie aveva fatto una notevole esperienza politica, ma non si era comunque arricchito; era più che altro un appassionato bibliofilo, ma i libri non interessavano ancora il popolo purtroppo. Vescovo di Bologna nel 1444, cardinale nel 1446, fu incoronato il 19 marzo e assunse il nome di Niccolò V.

Conclusione del Piccolo Scisma. Nei primi anni di pontificato egli non fece che raccogliere i frutti della politica del suo predecessore. Felice V abdicò dal ruolo fantoccio di antipapa, il 15 aprile 1449, riconoscendo come papa legittimo Niccolò V, che lo trattò generosamente; gli concesse la porpora cardinalizia e gli affidò l’amministrazione delle sedi vescovili di Losanna e Ginevra, dove morì due anni dopo.

1448: Pace di Vienna. Con Federico III e i principi di Germania il papa arrivò invece ad un nuovo concordato, più preciso dei due separati accordi conclusi da Eugenio IV; fu firmato a Vienna il 17 febbraio 1448, grazie all’abilità del cardinale Carvajal, suo collega nelle trattative di un anno prima.
Questo concordato regolò per diversi secoli i problemi ecclesiastici negli stati germanici e sancì notevoli diritti a favore della Santa Sede; esso mise termine all’ambiguità dei rapporti esistenti in Germania tra la figura del papa e il concilio, e il riconoscimento della sovranità del romano pontefice costituì una grande vittoria per Niccolò V.
Egli ritenne che l’unione della Chiesa sulla base di quel concordato fosse cementata in Occidente; apparentemente era così. Per cui, buttata alle spalle ogni idea di riforma, pensò solo a santificare solennemente l’avvenimento, annunciando il 4 settembre 1449 la concessione del giubileo per l’anno seguente.

Il giubileo del 1550. L’affluenza per quell’Anno Santo fu veramente immensa e da tutta Europa accorsero i pellegrini per lucrare le sante indulgenze; ma la ressa della folla a volte portò conseguenze mortali, come un giorno di dicembre quando sul ponte S. Angelo circa duecento persone, rimaste soffocate nella calca, morirono finendo annegate nel Tevere o sotto gli zoccoli dei cavalli.
Disastri peggiori procurò la solita peste che invase Roma e l’Italia; Niccolò V non fece certo una bella figura abbandonando la città in pieno Anno Santo per evitare il contagio in una vera e propria fuga dal 18 giugno al 25 ottobre. "La corte di Roma è deplorevolmente scappata e dispersa, come se qui non solesse esservi corte e Curia alcuna", criticava un inviato dell’Ordine Teutonico; "cardinali, vescovi, abati, monaci, nessuno eccettuato, tutti fuggono da Roma come gli apostoli di Nostro Signore il Venerdì Santo. Anche il nostro Santo Padre, il papa, s’è allontanato da Roma... Sua Santità s’è ritirata in un castello detto Fabriano... ed a quanto si dice ha proibito, sotto pena di scomunica e della perdita dei benefici e della grazia papale, che alcuno il quale sia stato a Roma, di qualunque condizione possa essere, né segretamente né pubblicamente s’accosti a Fabriano". D’altronde gli interessi finanziari della festa giubilare andavano avanti ugualmente, anche senza la presenza del vicario di Cristo; e poi per acquisire l’indulgenza non c’era bisogno neanche di venire a Roma. Era sufficiente avere soldi, perché, come ricorda il Seppelt, "nell’anno giubilare venne concesso a numerosi principi, per mezzo di particolari concessioni papali, l’acquisto delle indulgenze giubilari senza il faticoso viaggio a Roma. Ma anche a tutti i fedeli, che non potevano intraprendere il pellegrinaggio a Roma, venne offerta la possibilità di guadagnare le indulgenze. Ciò venne reso possibile per mezzo di speciali bolle per i singoli paesi nell’anno successivo a quello giubilare. Le modalità di acquisto delle indulgenze erano fissate, oltre che nelle abituali condizioni, in un versamento di un’offerta in denaro nella misura di circa la metà del prezzo del viaggio a Roma".
Tutto l’insieme contribuì a consolidare in Roma l’autorità del papa: Niccolò riuscì ad instaurare buoni rapporti sia con i Colonna sia con gli Orsini e nominò cardinali una schiera di fedeli seguaci. Bologna, continuamente ribelle, riconobbe la sua sovranità e fu imitata da altre città; tutto grazie all’opera di legati e vicari, tra i quali eccelse il cardinale Bessarione, che poterono contare su notevoli mezzi finanziari e militari.

In pratica cominciò ad avere una struttura precisa e moderna il potere temporale dei papi, proprio con l’investimento delle entrate ecclesiastiche per fini politici; in tal modo l’ideale cristiano dell’istituzione papale veniva tradito e, nonostante tutte le buone intenzioni, Niccolò V "agli occhi degli apostoli", secondo le parole del Gregorovius, "commetteva un errore scambiando il papato con la Chiesa e le cose dello Stato ecclesiastico con quelle della repubblica di Cristo".
Da questa organizzazione dello Stato pontificio l’imperatore era ormai destinato a restar fuori; il concordato di Vienna ne era in pratica un punto di riferimento irreversibile, e assunse solo il tono di una cerimonia mondana l’incoronazione imperiale che Federico III volle ricevere a Roma il 16 marzo 1452, in concomitanza del suo matrimonio con la principessa Eleonora del Portogallo, l’ultima celebrata da un papa nella sua città. Non aveva più il valore di un tempo, anche se l’orgoglioso Asburgo la volle eternata nel proprio stemma con le vocali AEIOU, significanti probabilmente "Austriae Est Imperare Orbi Universo". Oltretutto il 9 maggio 1453 Costantinopoli cadeva sotto i Turchi e così finiva di esistere l’impero d’Oriente, estrema traccia dell’antico impero romano. Invano Nicolò esortò i principi cristiani a soccorrere il fatiscente Impero bizantino.

Contribuì a conciliare gli Stati italiani nella pace di Lodi e a collegarli nella Lega italica (1454).

La congiura del Porcari. A Roma il potere pontificio fu sorretto da un attento regime poliziesco, che avrebbe poi incrementato la sua struttura; il primo ad esserne vittima fu Stefano Porcari, fautore di una congiura che tendeva ad instaurare di nuovo una costituzione repubblicana. Il moto insurrezionale, che doveva scoppiare ai primi di gennaio del 1453, prevedeva la cattura del papa o addirittura il suo assassinio, nonché l’eliminazione di alcuni cardinali. Una "soffiata" arrivò il 5 gennaio al cardinal Bessarione e il complotto fu tempestivamente scoperto: il Porcari venne arrestato e, dopo un processo per direttissima, fini sul patibolo assieme ad altri capi della congiura, Francesco Gabadeo, Pietro de Monterotondo, Battista Sciarra e Angiolo Ronconi. Il papa fu accusato di crudeltà e di essere un fedifrago, perché corse voce tra il popolo che, in un primo tempo, avesse promesso salva la vita allo Sciarra e al Ronconi, ma poi, ubriaco fradicio al momento dell’esecuzione, non fu in grado di firmare l’atto di grazia.
E così cominciarono quelle che possiamo considerare le prime "pasquinate", anche se il torso di Pasquino ancora non era venuto alla luce. Dall’anonima che faceva riferimento appunto alla congiura del Porcari

Da quando è Niccolò papa e assassino, 
abbonda a Roma il sangue e scarso è il vino
a quella scritta da Antonio Tebaldeo contro la Curia
La tua superbia ognor si fa più grande: 
più non si onora Dio, ma Bacco e Venere; 
forza è che in precipizio il ciel ti mande. 

E non si creda che l’epigramma fosse troppo drastico nel giudizio; la pompa delle cerimonie di corte in effetti con Niccolò V cominciò a prendere a Roma la falsariga di quella avignonese di Clemente V e VI; piuttosto con questo papa lo sfarzo mondano acquistò nuovo significato in rapporto alle energie emergenti del Rinascimento, che trovarono appunto in lui un grande mecenate. Ancor più la corte papale si arricchì di umanisti, tra i quali il libraio Vespasiano da Bisticci e il grande Lorenzo Valla; con il loro apporto Niccolò incrementò quella che era la sua innata passione, la bibliofilia.
Acquistò manoscritti, che fece trascrivere e ricercare nei paesi d’origine (in Germania scoperse un codice di Tertulliano; nei suoi viaggi si faceva seguire da scrivani che copiassero i codici che non si potevano acquistare), dando in pratica inizio alla biblioteca Vaticana che già sotto di lui poté arrivare a contare circa 1200 manoscritti, prevalentemente a carattere teologico. Per essa non badò a spese, convinto della funzione insostituibile che avrebbe avuto col tempo per il progresso della cultura, non riservandola poi ai soli ecclesiastici ma "pro communi doctorum comodo".
Da autentico figlio del Rinascimento s’impegnò in definitiva in un mecenatismo che recò evidentemente fama alla sua persona ma assicurò anche a Roma una riedificazione di cui aveva urgente bisogno; dal riassestamento delle mura, distrutte nei continui assalti, alla nuova fortificazione di Castel S. Angelo e ai lavori di restauro eseguiti dall’Alberti per la fontana di Trevi, con un vascone addossato al muraglione di età romana, che venne merlato.

Ma il punto di partenza del rinnovamento della città doveva essere il progetto che Leon Battista Alberti sottopose a Niccolò V per la riorganizzazione della Città Leonina con la costruzione di una nuova basilica di S. Pietro e del Vaticano nel suo insieme. Il papa non aveva pensato ad un’opera così gigantesca, ma nell’entusiasmo che lo prese approvò il progetto, anche se poi per la sua prematura morte i lavori così grandiosi restarono allo stato iniziale.
Comunque fu così preso dalla fantastica impresa architettonica che, a quanto pare, decise di procurarsi il materiale costruttivo occorrente asportandolo dagli antichi monumenti e finendo nella proverbiale situazione di "spogliare un altare per rivestirne un altro". Fece infatti prelevare marmi e travertini dal Colosseo e dal Circo Massimo, demolendo anche la cinta delle mura Serviane ai piedi dell’Aventino; le giuste lagnanze non mancarono e vennero proprio da quegli umanisti che lui proteggeva. Se ne fece portavoce il Piccolomini in un epigramma in latino che suona così in "volgare":

Mi piace, Roma, guardar le tue rovine,
dalla cui caduta affiora la gloria antica.
Ma questo tuo popolo, in ossequio alla calce, 
cuoce i duri marmi staccati dalle antiche mura. 
Gente empia, continua così ancora per trecent’anni 
e vedrai che qui non resterà traccia di nobiltà! 
Ma quando poi il 24 marzo 1455 Niccolò V morì, il futuro papa Pio II finì per esaltarlo nell’epitaffio inciso sul suo monumento funebre, eretto in S. Pietro e trasferito poi nelle Grotte Vaticane, come colui che aveva fatto risorgere in Roma l’età dell’oro.