Dopo la morte di Giovanni XXI, ci furono sei mesi di "sede vacante"; tanto fu il tempo che occorse ai sette cardinali che costituivano il collegio elettorale. Un numero ristretto, perché non c’erano state più nomine dai tempi di Gregorio X, e oltretutto un ottavo cardinale, Simone de Brion, era rimasto nella sua legazione in Francia. Il 25 novembre del 1276 fu infine eletto proprio colui che Carlo d’Angiò non avrebbe mai desiderato, il romano Giovanni Gaetano Orsini.
Nato verso il 1210, era figlio del senatore Matteo Rosso, famoso al tempo di Federico II; arciprete di S. Pietro, aveva avuto la porpora cardinalizia da Innocenzo IV col titolo di S. Niccolò in Carcere, fungendo da protettore dell’Ordine dei Minori e inquisitore generale. Era stato al servizio di ben otto papi, assistendo a sette conclavi, e da quello "carcerario" del 1276, nel quale uscì eletto Adriano v, aveva un Conto in sospeso con Carlo d’Angiò.
Fu consacrato a Roma il 26 dicembre del 1277 con il nome di Niccolò III; con lui "entrò in carica un pontefice, la cui natura di dominatore è stata, ben a ragione", secondo il Seppelt, "confrontata con quella di un Innocenzo III. Anch’egli era infatti profondamente penetrato e cosciente della dignità derivante all’alto ufficio di rappresentante di Cristo e successore del principe degli apostoli". È vero peraltro che, come membro di una illustre famiglia romana, ebbe essenzialmente "un concetto principesco della propria persona" in termini di potere, come osserva il Gregorovius, e da papa giunse "a praticare un nepotismo che oltrepassò tutti i limiti. Egli fu un vero "grande" romano, energico e regale, spregiudicato nell’ammassare tesori, volto completamente agli interessi mondani"; è chiaro insomma come il simbolo del vicario di Cristo finì in fondo per essere oscurato dagli interessi materiali. E se Niccolò III volle prima di tutto assicurare la libertà e l’indipendenza della Chiesa di Roma, finalizzò la sovranità pontificia a vantaggio personale, primo tra i papi a farlo in maniera così categorica, tale da costituire un "modello" per tanti suoi successori.
La prima meta che si prefisse Niccolò III fu quella di contrastare la potenza di Carlo d’Angiò; a questo scopo entrò subito in buoni rapporti con Rodolfo d’Asburgo, invitandolo a confermare gli accordi presi con Gregorio X a Losanna nel 1275, ma pretendendo che venisse precisata in un documento l’estensione dello Stato della Chiesa, città per città, sulla base degli antichi diplomi di donazione.
Il 4 maggio del 1278 un delegato di Rodolfo, il minorita Corrado, sottoscriveva a Roma l’atto relativo, stilato risalendo al privilegio di Ludovico il Pio per arrivare ai diplomi di Ottone I ed Enrico II. Rodolfo accettò senza contestazione, ed ebbe solo un’esitazione nella cessione della Romagna; Niccolò III fece presente che quella era la condizione irrinunciabile per la cessione, a contropartita, dei diritti imperiali sulla Toscana, di cui fino ad allora era vicario Carlo d’Angiò, ma per nomina pontificia. Così, annullati nel maggio gli atti relativi al giuramento di fedeltà imposto alla Romagna due anni prima, il 30 giugno Niccolò III entrava in possesso di quella terra sistemandovi immediatamente dei rappresentanti pontifici, scelti tra i membri della propria famiglia, in mano ai quali le città dovettero rendere omaggio alla Chiesa.
Legato pontificio fu nominato suo nipote Latino Malabranca, cardinale vescovo di Ostia, e conte della Romagna l’altro nipote, Bertoldo Orsini; inoltre per la difesa militare prese al servizio alcune truppe napoletane, che Carlo era tenuto a fornirgli come vassallo della Chiesa. Così la Romagna passò legalmente nelle mani pontificie.
Il trattato con Rodolfo ebbe come conseguenza l’indebolimento della potenza di Carlo d’Angiò; prima di tutto gli fu tolto il vicariato della Toscana, richiesto giustamente dal re di Germania, e inoltre lo costrinse a rinunciare all’incarico di senatore. Del resto questo avrebbe raggiunto il 16 settembre 1278 la sua scadenza decennale, per cui Carlo a metà giugno si era recato a Roma dichiarando che avrebbe rinunciato alla carica, cercando in tal modo di evitare un contrasto netto con il papa, che avrebbe potuto col tempo mettergli contro Rodolfo.
L’11 luglio del 1278 Niccolò emise la costituzione Fundamenta militantis ecclesiae, mediante la quale la nomina dei senatori in Roma doveva essere regolata dal papa, fermo restando il diritto elettorale dei cittadini romani. La signoria della città era affidata al papa, coadiuvato nel suo ufficio dai cardinali, e si ribadiva che l’elezione pontificia, come pure la nomina dei cardinali, doveva avvenire in piena libertà, senza alcuna influenza dei laici. Era inoltre vietata per il futuro l’elezione di qualsiasi imperatore, re, principe, marchese, duca, conte o barone alle cariche di senatore, capitano del popolo o patrizio né a vita né a tempo determinato. Tali cariche dovevano essere ricoperte soltanto da cittadini romani per la durata massima di un anno.
L’editto di Niccolò III non fece che rinforzare le ambizioni delle famiglie nobili romane; gli Orsini, i Colonna e i Savelli acquistarono nuova potenza e lottarono da allora per il potere in Senato e su tutta la città. Il papa stesso, come membro della potente famiglia degli Orsini, fu eletto dai cittadini senatore, ma egli cedette la carica, col consenso dei Romani, al fratello Matteo Rosso, al quale seguirono nell’ottobre del 1279 Giovanni Colonna e Pandolfo Savelli.
Carlo d’Angiò trovò un piccolo compenso alla perdita delle sue cariche nella pace che, fungendo da intermediario il papa, concluse nel 1280 con Rodolfo d’Asburgo in un reciproco riconoscimento della loro sovranità regale. Così Niccolò III era riuscito abilmente a condurre in porto la pace con l’impero, il riconoscimento della sovranità della Chiesa e la sottomissione del Campidoglio, nonché la limitazione della potenza di Carlo d’Angiò. Quanto al rapporto con l’Oriente, non acconsentì alle richieste di Michele VIII, che miravano ad ottenere dal papa che Carlo d’Angiò troncasse l’alleanza con i principi dell’Epiro e della Tessaglia, ma nello stesso tempo proibì al suo vassallo di portare avanti il progettato attacco all’impero bizantino; evitò insomma di schierarsi per una delle due parti, cercando in tal modo di non compromettere l’unione delle Chiese.
Niccolò III condusse in porto un breve ma memorabile pontificato, riuscendo ad edificare
secondo le parole del Gregorovius, "una Sion per i suoi consanguinei". È un fatto
che "da vero romano, egli amava la magnificenza ed il lusso e non esitò a procurarseli
anche a spese della Chiesa e del mondo cristiano", tanto da meritarsi un posto
tra
i simoniaci nell’Inferno dantesco, ove il poeta gli fa dire (XIX, 70-72):
e veramente fui figliuol dell’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che su l’avere, e qui me misi in borsa.
Da questo suo smoderato amore per il lusso trasse giovamento peraltro Roma stessa, città alla quale Niccolò si sentì profondamente legato. Spendendo cifre enormi di denaro, procedette ad un rinnovamento della basilica di S. Pietro, facendovi collocare i ritratti dei papi fino alla sua epoca; curò inoltre l’ampliamento del palazzo del Vaticano, iniziando la costruzione dei famosi giardini. Fu lui in pratica l’autentico fondatore della residenza vaticana.
Ristrutturò anche la basilica Lateranense, con la riedificazione della cappella
consacrata a S. Lorenzo, la celebre Sancta Sanctorum, distrutta da un terremoto
nel 1207. Fece costruire infine a Soriano, presso Viterbo, uno splendido palazzo donato
poi al nipote Orso: lì morì, colpito da apoplessia, il 22 agosto del 1280. Fu sepolto
nella cappella Orsini a San Pietro.
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