189.

MARTINO IV
Simone di Brion

nato a Brie (Brion) nel 1210

Eletto papa il 22.II
e consacrato il 23.III.1281
Morto il 28.III.1285

Alla morte di Niccolò III a Roma scoppiarono violenti tumulti fomentati dagli Annibaldi contro gli Orsini; i senatori in carica furono scacciati e sostituiti con membri delle due famiglie in lotta tra loro. I tumulti ebbero una ripercussione a Viterbo, dove era riunito il collegio dei cardinali per provvedere alla elezione del pontefice, nel solito contrasto tra il gruppo filoitaliano e quello filofrancese: Carlo stesso si era recato a Viterbo per cercare in ogni modo di far eleggere un papa che gli assicurasse nuovo prestigio. D’accordo con lui, Riccardo Annibaldi era riuscito a togliere ad Orso Orsini l’ufficio di podestà, per controllare personalmente il conclave; sotto la sua guida i Viterbesi, ormai abituati a certe imprese, assalirono il palazzo episcopale, misero le mani addosso ai cardinali della famiglia Orsini, Matteo Rosso e Giordano, e li segregarono in una stanza impedendogli di partecipare all’elezione. Di fronte a tale violenza, i cardinali rimasti nominarono il 22 febbraio 1281 il nuovo papa nella persona del francese Simone de Brion, cardinale di S. Cecilia. Carlo d’Angiò aveva raggiunto il suo scopo.
Il neoeletto infatti non era altri che il legato incaricato da Urbano IV delle lunghe trattative che avevano portato il papato al contratto d’investitura feudale con Carlo d’Angiò; era certamente una persona su cui il re poteva contare. Non avrebbe tradito le sue aspettative chi aveva percorso una carriera ecclesiastica tutta all’insegna della Francia; arcidiacono e cancelliere di Tours, poi tesoriere della chiesa di S. Martino in quella città, era stato assunto dal re Luigi IX, fratello di Carlo, come consigliere, diventando cancelliere e guardasigilli. A onor del vero, Simone de Brion, forse cosciente che sarebbe diventato uno strumento docile nelle mani del re angioino, riconoscendosi incapace di contrastare la sua personalità, tentò di opporsi alla propria consacrazione; era verosimilmente sincero, non compiva l’usuale "rito della renitenza", sintomo di falsa modestia in tanti suoi predecessori. Ma fu evidentemente raggirato ovvero costretto ad accettare da Carlo, al quale egli finì per affidarsi completamente, in una indegna sottomissione; permise a questi di abusare di lui in quattro anni di pontificato che fecero perdere alla Chiesa quanto aveva recuperato con Niccolò III.

Il nuovo papa avrebbe voluto essere incoronato a Roma, ma i Romani si rifiutarono di esaudire questo suo desiderio. E così egli, pronunciato l’interdetto contro Viterbo per i tumulti verificatisi durante la sua elezione, si trasferì ad Orvieto, dove fu consacrato il 23 marzo del 1281 assumendo il nome di Martino IV; era in realtà il secondo pontefice con questo nome, ma nella catalogazione fasulla dei papi di allora, Marino I e II erano stati erroneamente classificati come Martino II e III.

Carlo provvide a spianare al "suo" papa il terreno favorevole per tornare a Roma, tramite gli Annibaldi, o meglio si era aperto la strada per il grande rientro personale ai vertici del potere nella città. I Romani improvvisamente volevano Martino tra loro e gli offrivano addirittura la carica di senatore a vita, come era avvenuto con Niccolò III. Ma egli si mostrò inizialmente schivo dell’autorità, titubante e solo poi infine deciso ad accettare la dignità senatoria per trasmetterla a Carlo d’Angiò. Egli tutt’a un tratto abbandonava, così, senza apparente giustificazione, una conquista della politica energica del suo predecessore, la sovranità sulla città di Roma.
Da allora la potenza di Carlo d’Angiò e quella del partito guelfo crebbero nuovamente in tutta Italia; i posti di potere più importanti dalla Sicilia al Po caddero in mano ai Francesi. L’unica eccezione fu costituita dalla Romagna, dove sorse un dominio del ghibellino Guido da Montefeltro, così che la Chiesa perse temporaneamente anche quella terra.
Martino IV lasciò mano libera a Carlo anche nella politica antibizantina, mandando in rovina quella temporanea unione raggiunta tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente; questo papa si rivelò un ebete specialmente in tale circostanza. Per facilitare la spedizione che il re si accingeva a fare, in stretta alleanza con i sovrani d’Epiro e Tessaglia, giunse a concedere all’Angioino per sei anni le decime degli episcopati di Sardegna e Ungheria, destinate alla crociata, e inoltre scomunicò Michele VIII come promotore di eresia e fautore di scisma. Proprio lui che con premura si era dato da fare per eseguire i patti relativi all’unione, proprio lui che fino alla morte, avvenuta nel dicembre del 1282, si mantenne fedele al trattato stabilito con Niccolò III Aveva solo reagito vietando che si menzionasse il papa nelle preghiere comuni nelle chiese, trovando in questo l’appoggio del patriarca Giovanni Beccos, come lui irrinunciabile difensore dell’unione. Quando poi salì al trono il figlio di Michele VIII, Andronico II, si arrivò irrimediabilmente alla rottura e il patriarca fu sostituito con l’antiunionista Giuseppe: tornò di nuovo lo scisma e tutto per colpa di Martino IV.

I Vespri siciliani
Improvvisamente però un gravissimo avvenimento bloccò i progetti di egemonia di Carlo d’Angiò: i Vespri Siciliani. Il 31 marzo del 1282 l’isola si sollevò contro il re francese, invocando la protezione della Chiesa e proponendo a Martino la diretta sovranità del regno. Era una cosa che avrebbe fatto impazzire di gioia Innocenzo IV, che si era così dato da fare per mettere le mani sull’isola. E invece Martino IV, al quale veniva offerta su un piatto d’argento, tutto preso dalla compiacente dipendenza da Carlo d’Angiò, illuso che gli interessi di questi coincidessero con quelli della Chiesa, la rifiutava. Per tutta risposta condannava severamente la rivolta e pronunciava la scomunica contro i Siciliani.
Ma non si fermò qui; quando, con voto unanime, i rivoltosi offrirono la corona di Sicilia a Pietro d’ Aragona e questi ben contento l’accettò, sbarcando già in agosto a Trapani e prendendo possesso dell’isola, Martino IV scomunicò anche lui. E tirò fuori una serie di bolle contro l’Aragonese, giungendo a far predicare una crociata per la riconquista della Sicilia, deciso ad impegnare nell’impresa tutti i Comuni italiani. Il comportamento del papa finì nel ridicolo a questo punto; la Curia cominciò a criticarlo apertamente.
Ma il papa proseguì nella politica insensata. Considerò vacante il regno d’Aragona e l’offrì in feudo al figlio del re di Francia, Carlo di Valois; l’atto di cessione veniva decretato da Martino il 5 maggio del 1284. Comunque il tentativo di conquista di questo regno sarebbe naufragato l’anno successivo nella completa disfatta della flotta francese ad opera di quella aragonese al comando di Ruggero di Lauria, lo stesso ammiraglio che nel giugno del 1284 aveva sconfitto nel golfo di Napoli la flotta angioina e fatto prigioniero il giovane figlio del re, l’omonimo principe Carlo. Così Carlo d’Angiò, quando moriva il 7 gennaio del 1285, vedeva il vuoto dietro di sé, dopo tanto improvviso e facile ritorno ai vertici del trionfo.

Martino IV da parte sua aveva commesso ormai tanti errori che non poteva fare nulla di meglio che evitarne altri. Così fece sapere a Rodolfo che era opportuno rinviare l’incoronazione imperiale a causa dei tumulti che senza tregua turbavano Roma; e mantenne vivo in tal modo il motivo di una restaurazione imperiale. Peraltro, stando ad Orvieto, riuscì a far sentire il suo risentimento quando Giovanni di Cinzio Malabranca fu eletto dal popolo tribuno della repubblica; non potendo contare più su Carlo d’Angiò, si risvegliò in lui un minimo di dignità nel lamentarsi perché, nella circostanza, erano stati offesi i diritti pontifici nonché quelli di senatore a vita, da lui trasmessi all’Angioino. Fu ascoltato; ed egli, sempre magnanimo, confermò Giovanni di Cinzio ma solo come "prefetto dell’annona" e acconsentì a riconoscere il consiglio dei priori, eletto dalle corporazioni artigiane; per la carica di senatore avrebbe provveduto lui personalmente a nominare due suoi rappresentanti.
Il popolo non protestò, vedendo in parte tutelati i propri diritti; Riccardo Annibaldi, il despota del conclave di Viterbo, la scontò per tutti. Dovette fare atto di sottomissione, per ordine del papa, recandosi a piedi e con la corda al collo al palazzo del cardinale Matteo Orsini per implorarne il perdono. E la costituzione di Niccolò III in tal modo fu nuovamente applicata; qualcosa della sua politica fortunatamente non era andato perduto...

Uno dei pochi meriti è l’aver abbellito Roma con il Campidoglio, giardini e altre grandiose opere.

Martino IV morì a Perugia il 28 marzo del 1285 dopo aver abusato, in un lautissimo pranzo, di anguille, di cui era molto goloso. Dante lo mette nel Purgatorio, fra i golosi, a espiare con il digiuno "l’anguille di Bolsena e la vernaccia". Fu sepolto nella cattedrale di quella città.