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MARTINO V
Oddone Colonna

Nato a Genazzano, Roma, nel 1368

Eletto papa l’11.XI
e cons. il 21.XI.1417
Morto il 20.II.1431

Ricompose lo Scisma d’Occidente

Dopo l’abdicazione di Gregorio XII, il concilio di Costanza cercò di arrivare ad un pacifico accordo con Benedetto XIII, mediatore lo stesso imperatore Sigismondo in un incontro a Perpignan, ma il papa di Avignone restò "impenitente", deciso a resistere nella sua sovranità, anche quando gli stessi principi spagnoli lo abbandonarono. Mentre egli lasciava la Francia e, per timore di finir prigioniero come Giovanni XXIII, si insediava nel castello-fortezza di Peñìscola, in Valencia, l’assemblea, preso atto del suo rifiuto di abdicare, giungeva il 26 luglio del 1417 a dichiararlo decaduto dalla dignità pontificia come scismatico ed eretico. Anche se Benedetto XIII seguitò a considerarsi ufficialmente pontefice, il concilio di Costanza ritenne ormai concluso lo scisma e si dedicò ai preparativi del conclave nel quale sarebbe stato eletto il nuovo papa legittimo; eccezionalmente avrebbero avuto diritto al voto, oltre ai 23 cardinali, 6 rappresentanti di ciascuna delle cinque nazioni. Trionfò però la raccomandazione fatta da Gregorio XII che l’eletto riportasse la maggioranza dei due terzi dei presenti.
La sera dell’8 novembre 1417 i 53 elettori entrarono in conclave nella Camera di Commercio di Costanza; tre giorni dopo, i lavori erano conclusi. L’11 novembre fu eletto il cardinale diacono Oddone Colonna, nato a Genazzano nel 1368; elevato alla porpora cardinalizia da Innocenzo VII, era intervenuto al concilio di Pisa, parteggiando in seguito per Giovanni XXIII fino alla fuga di questi a Sciaffusa. Ordinato subito sacerdote e consacrato vescovo, il 21 novembre fu incoronato nella cattedrale di Costanza e assunse il nome di Martino V; dopo 39 anni la Chiesa d’Occidente ritrovava l’unità sotto un sovrano pontefice. Martino V assunse subito la presidenza del concilio, che avrebbe ora dovuto affrontare la questione della riforma; su questo punto sorsero diverse complicazioni, specialmente per il diritto che la Chiesa romana si arrogava di imporre tasse, giustificandolo con i gravi bisogni causati dallo stato di abbandono nel quale si era ridotta dai tempi di Avignone e poi con lo scisma; si arrivò ad un compromesso impostando tre concordati diversificati. Uno con la Germania, al quale aderirono Polonia, Ungheria e i paesi della Scandinavia; un secondo con Francia, Spagna e Italia; un terzo con l’Inghilterra. In generale essi stabilivano le norme sulla composizione del collegio dei cardinali, fissavano un limite al diritto pontificio di provvista dei benefici e imposizione di tributi, nonché l’immunità giudiziale della Curia. La sottomissione alle definizioni dogmatiche del papa in compenso doveva ritenersi di precetto per tutti i fedeli; e questo fu un punto importante per il riscatto della figura del romano pontefice.
Peraltro, in sede di chiusura dei lavori, vennero ufficialmente convalidati tutti i decreti; sul fronte dell’eresia il concilio aveva già espresso il suo parere nelle prime sedute del 1415, condannando gli scritti dell’inglese Giovanni Wicliffe e di conseguenza il suo discepolo Giovanni Hus. Di fronte al rifiuto di questi di ritrattare i propri "errori", era stato consegnato al braccio secolare della legge come eretico e condannato al rogo il 16 luglio 1415; la stessa sorte era toccata al suo seguace Girolamo da Praga, ma le loro idee si erano radicate specialmente in Boemia e avrebbero determinato posizioni irreversibili con Lutero.

Chiuso il concilio il 22 aprile 1418, con la promessa della convocazione di un sinodo per il 1423 a Pavia, Martino V si trattenne per qualche tempo ancora a Costanza; Sigismondo lo invitò a porre la sua residenza in Germania, offrendogli le città di Basilea, Magonza e Strasburgo; il re di Francia Carlo VI premeva per averlo ad Avignone. Il papa cortesemente rifiutò, pienamente consapevole che era Roma la vera sede dalla quale il vicario di Cristo doveva guidare la Chiesa, sentendosi lì veramente libero e sovrano.

Nel maggio 1418 lasciava Costanza e, passando per Berna e Ginevra, arrivava in Italia; il 12 ottobre era a Milano ove consacrò l’altar maggiore della cattedrale che si stava allora edificando. Passò quindi per Brescia e arrivò a Mantova, dove risiedette tre mesi; le condizioni di anarchia in cui si trovavano Roma e lo Stato pontificio, completamente sottratti alla sovranità del papa, rendevano problematico il suo ritorno nella sede apostolica. Tuttavia nel febbraio 1419 vi si avvicinò maggiormente arrivando a Firenze, dove restò un anno e mezzo; qui strinse un accordo con il potente condottiero Braccio da Montone che controllava gran parte dei territori pontifici dell’Italia centrale.
A patti con Braccio da Montone
Martino V dovette cedergli come feudo le città di Perugia e di Assisi, con il circondario umbro, e assegnargli il titolo di vicario della Chiesa; in compenso Bologna rientrava nel dominio dello Stato pontificio e accettava un legato di Martino. Tornava anche la pace tra il papato e gli Angioini; Giovanna II, regina di Napoli, raggiungeva un accordo con Martino e le truppe napoletane abbandonavano Roma. 

Finalmente a Roma
Il 30 settembre 1420 il papa faceva il suo ingresso da porta del Popolo, accolto con entusiasmo dai Romani che, dopo 135 anni, vedevano finalmente un concittadino papa.

Le condizioni di Roma erano veramente misere, tra case e chiese semidistrutte, con carestie ed epidemie dilaganti. Il Platina parla appunto di "case a pezzi, templi cadenti, strade fangose, una città lurida e abbandonata", tale che "non aveva volto, senza un indizio di vita urbana", in un quadro di decadenza spaventosa. Martino V si rimboccò le maniche per ridare un volto alla città e prima di tutto si preoccupò di assicurare in Roma la libera circolazione, ristabilendo i "magistri viarum" cioè gli ispettori stradali che da autentici poliziotti ripulissero le strade da ladri e malviventi. Cercò inoltre di ingentilire l’animo della cittadinanza, introducendo il costume di distribuire la domenica precedente la Pasqua le "rose d’oro" a cittadini illustri e nobildonne, nonché cappelli e spade d’onore ad alti impiegati all’inizio di ogni anno.
Ma soprattutto curò la restaurazione delle chiese, abbellendole con l’opera di grandi pittori come Gentile da Fabriano e il giovane Masaccio; si ebbero così gli affreschi in S. Giovanni, in S. Maria Maggiore e S. Clemente. Creò inoltre la base per la ricostruzione della città intera, grazie ad un ordinato piano amministrativo, che avrebbe avuto un incremento notevole con i suoi successori. E naturalmente s’impegnò per ridare allo Stato pontificio una forte monarchia unitaria, cercando lentamente di centralizzare in Roma quell’aggregato di municipi e province governate con diritti speciali e statuti eterogenei; ma il lavoro in questo senso era quanto mai arduo e avrebbe trovato una sua risoluzione solo un secolo dopo.
Non sapendo a chi appoggiarsi in quest’opera di restaurazione politica, si servì in genere dei parenti, gli unici in pratica di cui poteva fidarsi, rendendoli potenti con matrimoni che li legassero ai vari signori delle province dello Stato pontificio. Fu chiaramente un atto nepotistico, riprovevole, ma probabilmente necessario su un piano puramente tecnico di organizzazione politica; del resto, bisogna sottolineare, come nota il Gregorovius, che "per economia disdegnò pompe e splendori", tanto da "tenere corte meschina nel palazzo dei Ss. Apostoli". "Ancora figlio del rozzo XIV secolo", badò insomma alla restaurazione pratica degli affari ecclesiastici senza circondarsi "di teatrale magnificenza", e certamente questo torna a sua lode. E non va dimenticato inoltre che egli ebbe il merito di aprire la cancelleria papale ad altri umanisti, proseguendo nell’impegno di rinnovamento culturale già avviato da Innocenzo VII; il più importante fu Poggio Bracciolini, fortunato scopritore di antichi manoscritti.

Si dimostrò inoltre tollerante verso gli ebrei, mitigando le misure vessatorie del suo predecessore contro di loro.

Nel 1423 indisse il V Giubileo, in rapporto ai 33 anni di Cristo e quindi in riferimento a quello del 1390. Vennero introdotte due novità: la coniazione di una speciale medaglia commemorativa e l’apertura della Porta Santa a San Giovanni in Laterano. Questo giubileo forse più dei precedenti mantenne un suo aspetto tutto religioso, grazie anche alle prediche di Bernardino da Siena, che contribuirono alla "rievangelizzazione" di Roma, così abbandonata a se stessa in un venir meno della fede, traviata com’era dalla miseria senza speranza da un lato e da uno sfrenato paganesimo di vita dall’altro. Martino V rinnovò da parte sua la devozione dell’eucarestia e approvò l’istituzione di diverse congregazioni religiose, tra cui quella di S. Francesca Romana.

Sempre in quell’anno il papa dette disposizioni per l’apertura del concilio a Pavia, già promesso a Costanza; quando fu dichiarato aperto il 23 aprile 1423, pochi vescovi si trovavano in quella città a causa della peste, per cui i legati pontifici lo trasferirono a Siena rinviandone l’apertura al 21 luglio.
Contrasti affiorarono tra i sempre scarsi partecipanti e i lavori procedevano lentamente; i prelati finirono per abbandonare un po’ alla volta l’assemblea, che fu sciolta dai legati pontifici il7 marzo 1424. In pratica era stato un fallimento; Martino V notificò che avrebbe convocato un nuovo concilio a Basilea nel 1431 e approvò i pochi decreti emessi a Siena, che costituivano in definitiva una conferma di alcuni già definiti a Costanza, come quelli contro le eresie hussite e la scomunica ai seguaci di Benedetto XIII. Questi era morto nel suo castello di Peñìscola il 23 maggio dell’anno prima, dopo aver nominato quattro cardinali.
Tre di essi, alla sua morte, col consenso del re di Aragona, gli avevano dato un successore nella persona di Gil Muñoz, canonico di Barcellona, che aveva assunto il nome di Clemente VIII; ma nel 1429 si dimise dalla carica, invitando i suoi tre elettori a riconoscere papa Martino V, che lo perdonò e generosamente lo nominò vescovo delle isole Baleari, dove sarebbe morto nel 1446. Il quarto cardinale Jean Carrière, si era creato poi nel 1425 un papa personale nella figura di Bernard Garnier de Rodez, che aveva assunto il nome di Benedetto XIV e morì nel 1430; la storia di questi due antipapi ha veramente del ridicolo, tanto che l’Annuario pontificio non li annovera neanche tra gli antipapi.

Assalti più concreti alla supremazia papale di Martino V vennero invece dalla Francia dove, nonostante il clima di guerra ancora in atto con l’Inghilterra, Carlo VII tendeva a non riconoscere un concordato firmato a Genazzano, perché limitativo di buona parte delle libertà gallicane in fatto di antichi diritti di benefici e giurisdizioni; Martino resistette alle sue forti pressioni, come pure reagì con fermezza al clima di disobbedienza che cominciava di nuovo a serpeggiare in seno al clero francese. In previsione del concilio di Basilea, l’l gennaio 1431 il papa nominò il cardinale Cesarini presidente di quell’assemblea, conferendogli anche il potere di trasferirla ad altra sede se lo avesse ritenuto opportuno per un sereno svolgimento delle sedute.
Fu l’ultima sua decisione importante; il 20 febbraio 1431 moriva per un colpo apoplettico. Fu sepolto in S. Giovanni in Laterano; uno splendido bassorilievo in bronzo lo raffigura nella lastra del monumento funebre con l’epigrafe che lo designa "temporum suorum felicìtas", retorico elogio "non del tutto infondato", come gli concede il Gregorovius, principalmente perché con lui Roma e lo Stato della Chiesa trovarono un’epoca nuova e, sotto certi aspetti, più umana.