198.

CLEMENTE VI
Pierre Roger de Beaufort

Nato a Maumont, Corrèze, nel 1291

Eletto papa il 7.V
consacrato il 19.V.1342
Morto il 6.XII.1352

Tredici giorni dopo la morte di Benedetto XII ad Avignone, il 7 maggio 1342, i cardinali elessero papa Pierre Roger de Beaufort; nato a Malmont nel 1291, monaco benedettino in giovanissima età, era stato docente di teologia a Parigi e vescovo di Arras, nonché cancelliere di Filippo il Bello. Successivamente vescovo di Sens e Rouen, era stato elevato alla porpora cardinalizia nel 1338 da Benedetto XII; fu consacrato papa il 19 maggio con il nome di Clemente VI.

Legatissimo alla sua patria, non pensò proprio a tornare a Roma; considerando anzi il Palazzo di Benedetto XII indegno della corte pontificia, dopo l'acquisto del territorio circostante, ampliò la sua residenza facendovi costruire vicino dal suo architetto Jean de Louvres il cosiddetto "Palazzo Nuovo" di uno stile più fiorito, che dette a tutto il complesso una fastosità degna dei papi mecenati del Rinascimento. Prestigio e prosperità contraddistinsero allora Avignone che, da piccola borgata di provincia, divenne la capitale del cristianesimo ma, con il moltiplicarsi dei traffici, in un incremento della popolazione e nel diffondersi del benessere, assunse anche l'aspetto di un grosso centro commerciale.

Avignone ebbe in pratica un doppio volto; fu una seconda Roma, con gli organi della Curia tutti in piena efficienza secondo i rinnovamenti instaurati da Giovanni XXII, ma proprio per questo si rivelò nello stesso tempo un centro di alta finanza. Non meno di quattromila persone gravitavano intorno alla corte papale, tra agenti di commercio internazionali e delle grandi banche fiorentine e senesi che impiantarono le loro filiali ad Avignone.

La Chiesa si trovò coinvolta in traffici più o meno legali, tanto da meritare la definizione di novella Babilonia nelle Rime del Tetrarca (CXIV, 1-4):

De l'empia Babilonia ond'è fuggita 
ogni vergogna, ond'ogni bene è fori, 
albergo di dolor, madre d'errori, 
son fuggito io per allungar la vita
E il poeta d'Arezzo in prosa appariva ancor più nauseato nei confronti della residenza pontificia: "Pessimo sempre... mi parve quel luogo... per l'accolta che ivi si fece delle nequizie e delle lordure del mondo intero", ricordava in una lettera all'arcivescovo di Genova (Seniles, x, 2) e aggiungeva: "Sebbene infatti, per non parlare del resto, mai non vi trovassero albergo la fede e la carità, e di quel luogo ciò dir si possa che già fu detto di Annibale, nulla essere in esso di vero, nulla di sacro, non timore di Dio, non santità dei giuramenti, non religione...".

Naturalmente il Petrarca era spinto nelle sue invettive dalla battaglia in cui egli era fermamente impegnato per convincere il papa a tornare a Roma; ma per quanto esagerato dal calore della polemica, il quadro rifletteva una situazione di fondo reale.

Come ricorda lo stesso Castiglioni, "di megalomania spendereccia Clemente VI aveva già dato prova quando era cardinale, e fu buona ventura per i suoi creditori che Pierre Roger divenisse papa, perché volle saldarli tutti con la giunta di laute gratificazioni"; i funzionari della sua corte, ecclesiastici e non, fruirono di rendite cospicue e tutte le spese di governo furono enormi.
Clemente VI cercò di accentrare le finanze ecclesiastiche decretando che tutti i benefici ecclesiastici e le entrate provenienti dalle proprietà della Chiesa fossero sottomesse alla sola giurisdizione papale, ma suscitò un'ampia opposizione e le entrate della tesoreria papale subirono gravi perdite.
Oltretutto ai margini della corte gravitarono ogni sorta di avventurieri tra alchimisti, contrabbandieri, ricettatori che certo dettero ad Avignone un aspetto che avrebbe fatto inorridire Dante nel vedere più che mai la Chiesa "puttaneggiar".

Quanto al ritorno a Roma, il discorso per Clemente VI era chiuso; con un atto in data 9 giugno 1348 comprò la città di Avignone dalla regina Giovanna di Napoli, che ne aveva la sovranità feudale. A Roma aveva provveduto ad accontentare il popolo affidando a Cola di Rienzo, inviatogli nel 1343 come ambasciatore, la carica di notaro della Camera urbana. Era una qualifica che dette modo al giovane di accattivarsi l'animo dei concittadini, educandoli con le sue arringhe dal Campidoglio a ideali repubblicani, ma nello stesso tempo inizialmente rispettosi nei confronti del papa avignonese. Così Cola si ritrovò a capo dei rettori democratici di Roma e finì per essere nominato "per autorità del Signor Nostro Gesù Cristo severo e tremendo tribuno di libertà, di pace e di giustizia e liberatore della sacra romana republica" nel 1347 .

In occasione della peste nera (1348) diede prova di grande spirito di carità e coraggio: venne in soccorso degli ebrei, accusati di aver provocato l'epidemia, disponendo per loro un rifugio ad Avignone.

Sul fronte imperiale, Ludovico il Bavaro, in rotta col papato, finse di volersi riappacificare con Clemente, ma questi spinse alcuni principi tedeschi ad eleggergli una sorta di antiré nella persona di Carlo di Moravia, fedele creatura pontificia e suo ospite ad Avignone, con tanto di giuramento di fedeltà in prospettiva dell'incoronazione che avvenne nel 1346 a Bonn. Nel settembre dell'anno dopo comunque Ludovico moriva e Carlo IV veniva così riconosciuto da tutti i principi tedeschi; Guglielmo d'Occam e gran parte dei teologi asserragliati alla corte del Bavaro si sottomisero al papa, che li perdonò sciogliendoli dalla scomunica.

Roma "pontificia" viveva intanto la folle e bella avventura comunale di Cola di Rienzo, in un misto di megalomania e democrazia che sarebbero state fatali al tribuno; non piacque infatti né a Clemente VI né a Carlo IV l'episodio di Cola incoronato cavaliere in S. Maria Maggiore con sette corone significanti i doni dello Spirito Santo e la consegna della palla d'argento a simbolo dell'impero. Il potere lo aveva esaltato e probabilmente allontanato dallo spirito democratico all'insegna del quale si era conquistato l'animo della plebe romana; fu facile allora per il vicario pontificio, Raimondo vescovo di Orvieto, metterlo in cattiva luce, fino a dichiararlo decaduto da ogni carica e scomunicarlo nel dicembre del 1348.
L'ex tribuno in fuga verso il nord, nel 1350 tentava di convincere Carlo IV a farsi promotore di un rinnovamento dell'umanità e della Chiesa, rendendolo partecipe delle profetiche visioni di un suo amico eremita, frate Angelo; ma un sovrano papalino come Carlo non stette troppo a sentirlo e l'arcivescovo di Praga lo fece imprigionare, spedendolo poi ad Avignone perché fosse giudicato come eretico. Nell'agosto del 1352 un tribunale di tre cardinali lo condannò a morte, ma il verdetto non fu definitivo. Tra gli appelli del Petrarca, suo grande ammiratore, e dei Romani che lo volevano di nuovo come un restauratore di giustizia per una città in preda all'anarchia, nonostante il giubileo del 1350, Cola trascorse gli ultimi mesi del pontificato di Clemente VI in stato di prigionia decorosa e benevola, pur con quella sentenza di morte incombente sul capo.

Il giubileo del 1350
Il secondo giubileo fu bandito da Clemente VI riducendo a 50 anni, secondo l'uso ebraico, l'intervallo tra un Anno Santo e l'altro, con l'aggiunta della visita alla basilica di S. Giovanni. Ufficialmente il papa voleva ridare un po' di serenità spirituale all'Italia e all'Europa cristiana così angustiata dalla peste di due anni prima, ma il Villani nota che il fine pratico era di natura economica perché "dall'offerta fatta per gli pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e Romani per loro derrate furono tutti ricchi". In sostanza, se l'Anno Santo dette a Roma l'opportunità di essere di nuovo al centro della cristianità, concreta era anche la prospettiva di buoni affari per quei cittadini così abbandonati a se stessi. E come nota ancora il Villani, alcuni venditori approfittarono dell'occasione, ad esempio, frodando "il macellaio, mescolando e vendendo con sottili inganni la mala carne con la buona" e gli albergatori specularono sui posti letto, assegnandone uno a due o tre persone, ma poi "ce ne facevano jacere" fino a sei o sette.

Avignone insomma, per alcuni aspetti, ebbe in quell'occasione una sua "filiale" a Roma e il fatto che Clemente estese il numero delle basiliche da visitare a tre, comprendendo oltre S. Pietro e S. Paolo anche S. Giovanni in Laterano, determinò un maggior afflusso di pellegrini e quindi un incremento di "limosine". Queste passarono sotto il diretto controllo dei due cardinali inviati dal papa con pieni poteri a Roma, Guido di Boulogne-sur-Mer e Pietro Ciriaco di Limoges, nonché del vicario pontificio nella persona del cardinale Annibaldo Gaetani di Ceccano, che risiedeva in Vaticano.
Questi instaurò un vero e proprio traffico di assoluzioni nei confronti dei pellegrini scomunicati, là dove il concetto di "limosina" spontanea e libera si vanificava in un autentico mercimonio. Annibaldo si attirò l'odio dei pellegrini, subì un attentato, reagì con arresti e torture, arrivando addirittura a infliggere l'interdetto a Roma in pieno Anno Santo. Clemente capì allora che era opportuno sostituirlo e lo spedì a Napoli, ma il cardinale Annibaldo non riuscì a scampare alla morte per avvelenamento che lo colse durante il viaggio. Il tutto appare sintomatico di come il significato religioso del giubileo fosse stato travisato, proprio perché la minicorte pontificia di Roma rifletteva abitudini e mentalità di quella grande ufficiale di Avignone.
Clemente VI infatti se la godeva nella sua Babilonia, ingolfandosi sempre più in una corte lussuosa e per nulla apostolica; il Castiglioni stesso finisce per dar credito al Muratori che "giudica molto severamente Clemente VI, e non lo salva dalla taccia di avidità di denaro, di vita spendereccia e persino di sospetti di immoralità", facendo sue le note di Matteo Villani su questo papa che "in ingrandire ed arricchire i suoi parenti non conobbe limiti, e la Chiesa rifornì di più cardinali suoi congiunti e fecene di sì giovani e sì disonesta e dissoluta vita, che n'uscirono di grande abominazione" (Annali, 1352).

Clemente VI morì ad Avignone il 6 dicembre 1352 e fu sepolto nell'abbazia di Chaise Dieu nell'Alta Loira.