214.

ALESSANDRO VI
Rodrigo di Lanzol de Borja

Nato nel 1431 a Jativa, Valencia

Eletto papa l'11.VIII
e cons. il  26.VIII.1492
Morto il 18.VIII.1503

Conclave
Eseguiti i funerali di Innocenzo VIII, 23 cardinali entrarono in conclave nella cappella Sistina in S. Pietro il 6 agosto 1492; nello scrutinio della notte tra il l0 e l’11 fu eletto il cardinale Rodrigo Borgia, ma sulla sua elezione pesa l'ombra della simonia. Per il Pastor «non c'è dubbio che vi contribuirono manovre simoniache» e così per la maggior parte degli storici; i pochi strenui difensori della «incorrotta» scelta si arrampicano in verità sugli specchi e, pur non indicandola come opera dello Spirito Santo, apportano motivazioni politiche. «Fu eletto perché doveva essere un candidato forte... che meglio conosceva i bisogni della Santa Sede», dice il Ferrara, di seguito alla tesi di La Torre, il quale sostiene che «le richieste e le promesse che furono fatte in questo conclave... non erano dai cardinali considerate come aventi il carattere di simonia».
È semplicemente ridicolo limitare al denaro sonante un'elezione simoniaca, perché hanno lo stesso peso le varie commende promesse dal Borgia in conclave e da lui distribuite appena eletto; il vicecancellierato e il proprio palazzo al cardinale Ascanio Sforza, suo principale sostenitore, i possedimenti di Monticelli e Soriano al cardinale Orsini, Subiaco con i castelli circostanti al Colonna, Civitacastellana al Savelli.

Vita
Nato l'1 gennaio del 1431 a Jativa, (stessa città natale dello zio papa), da Isabella Borja, sorella di Callisto III, e da Jofré de Borja y Doms, suo cugino, già a quattordici anni, per la protezione dello zio allora cardinale, ebbe canonicati e prebende da Niccolò V. Venuto in Italia nel 1449, studiò diritto canonico all'università di Bologna, dove si laureò nel 1456. Nel 1455, dallo zio diventato papa fu nominato protonotario apostolico, mentre nel 1456 (a soli 25 anni) fu fatto cardinale, vicecancelliere della Chiesa ancor prima di ricevere gli ordini maggiori, e vescovo di Valencia (per questo fu chiamato anche “il cardinale Valentino”), arricchendosi di lucrosi benefici così da poter disporre di una rendita principesca. Morto Callisto III (1458), ebbe il favore di Pio II (che ufficialmente lo rimproverò in un «breve» per la sua vita libertina) e di Sisto IV, da cui fu inviato come legato in Spagna nel 1472: nel 1484, alla morte di Sisto IV, tentò invano di farsi eleggere papa. Nel frattempo aveva continuato la sua relazione libertina con la romana Vannozza de' Cattanei, sposata ben tre volte, che gli diede quattro figli: Cesare, Giovanni, secondo duca di Gandía, Lucrezia e Goffredo. Ma da donne ignote Rodrigo ne aveva avuti altri tre: due femmine e Pier Luigi, primo duca di Gandía.

Papato
Quando ascese al soglio pontificio nel 1492 tutti qusti figli vennero legittimati con varie bolle. E Rodrigo avrebbe seguitato anche da papa questa condotta all'insegna del piacere, tanto che gli nacquero ancora due figli, l'ultimo dei quali verso la fine del pontificato, se non dopo la morte. Sua amante ufficiale da pontefice fu la moglie di Orsino Orsini, la bella Giulia Farnese che i contemporanei qualificarono appunto come concubina papae ovvero, in termini blasfemi, «sposa di Cristo»; il fratello, Alessandro, fu creato cardinale. Da questo punto di vista la figura di Alessandro VI appare veramente «enigmatica da rimanere un mistero agli occhi del più acuto psicologo», ha osservato il Gregorovius, ed è indiscutibile «che la sua indomabile sensualità aveva carattere patologico», come ha sottolineato il Seppelt; anche se non fu il primo sovrano pontefice a comportarsi così. Su questa sagra dell'erotismo sono stati scritti fiumi d'inchiostro, ma qui è sufficiente quanto indicato, senza soffermarsi in altri particolari nel seguito della biografia; prendiamo comunque per buona l'indicazione di Franco Molinari che in pratica papa Borgia «non fu più che uomo, nel senso di pover'uomo» e concludiamo con lui che, da questo punto di vista però «mai forse la tiara si posò su un più indegno vicario di Cristo».

Il che avvenne in S. Pietro con pompa straordinaria il 26 agosto del 1492 e il Borgia assunse il nome di Alessandro VI; con i precedenti ampiamente noti, fu preso di mira in una «pasquinata» che sottolineava la simonia e il mercimonio, collegando quel numero «sesto» ad una tradizione sfavorevole. I versi latini suonano così in volgare:

Alessandro vende chiavi, altari e Cristo:
è suo diritto vendere quel che ha comprato prima. 
Di vizio in vizio, da fiamma nasce incendio,
e Roma deperisce sotto il dominio ispanico. 
Sesto Tarquinio, Sesto Nerone e Sesto pure questo: 
Roma sotto i Sesti sempre andò in rovina.
D'altra parte c'era qualche umanista pronto a giurare in un distico sullo splendore che Roma avrebbe avuto da un simile sovrano pontefi­ce, con attributi però pagani, non adatti ad un vicario di Cristo, presumibilmente quindi ironici. Eccolo tradotto in volgare:
Sotto Cesare Roma fu grande, ora è grandissima;
regna Alessandro Sesto. Quello fu uomo, questo però è Dio. 

E dire che agli inizi, a parte le donazioni dovute per la sua elezione, Alessandro VI faceva ben sperare in una sanità di principi che risaltarono nel ristabilire l'ordine in una città come Roma, dove, durante il breve periodo di sede vacante, si erano contati ben 220 omicidi, e in saggi provvedimenti di politica economica con l'impegno di conservare la pace in Italia.

Poco aperto, da un lato, alla cultura rinascimentale, sistemò tuttavia l'università di Roma e incoraggiò gli scavi archeologici che portarono alla scoperta, a Nettuno, dell'Apollo del Belvedere e, più tardi, del gruppo del Laocoonte. 

«Poi il peso dell'umanità peccatrice soffocò ogni sogno di bonifica morale», come nota il Molinari, ricordando che pure il destino gli offrì l'occasione per redimersi e dedicarsi alla Chiesa come padre di essa, «quando un soffitto crollò su di lui travolgendolo in una nuvola di polvere e in una frana di macerie, e poi quando la mano d'un sicario assassinò suo figlio Giovanni, che teneramente amava. Ambedue le volte si dichiarò deciso a cambiar vita. Ma le promesse non furono mantenute». E certo non poté smuoverlo Girolamo Savonarola, che denunciò con asprezza la sua vita dissipata e poi l'accusò di simonia: Alessandro VI lo scomunicò (1497). L'anno successivo il Savonarola fu impiccato e bruciato sul rogo alla presenza di inviati pontifici, vittima delle sue stesse prediche e di avvenimenti politici più grandi della sua pur esaltante figura.

È che per Alessandro VI il papato e la Chiesa costituirono solo un mezzo per arricchire ed elevare la sua famiglia, assicurando a ognuno dei figli una posizione di dominio; Cesare fu tra di essi quello destinato a raccogliere i frutti maggiori fin dalla più tenera età. Nominato protonotaro apostolico a soli 6 anni da Sisto IV, era stato elevato a vescovo di Pamplona da Innocenzo VIII; ma il padre appena eletto gli af­fidò l'arcivescovado di Valenza e nel 1493 lo assunse nel collegio dei cardinali. Il prediletto Giovanni, duca di Gandia, venne infeudato nel 1497 con il ducato di Benevento, Terracina e Pontecorvo, incamerando in pratica una parte dello Stato pontificio: ne avrebbe goduto ben poco, perché quello stesso anno sarebbe stato ucciso in misteriose circostanze.
Lucrezia, immortalata anche in «romanzi d'appendice», fu migliore di quanto in genere si dice: ad esempio restano tutti da dimostrare i suoi supposti rapporti incestuosi con il padre e il fratello Cesare. Si sposò tre volte; il primo matrimonio con il conte Giovanni Sforza, signore di Pesaro e parente del cardinale Ascanio Sforza, fu un po' un ennesimo codicillo della gratitudine dovuta a quest'ultimo da Rodrigo Borgia per l'elezione pontificia. Celebrato con grande fasto in Vaticano, e benedetto dal papa-papà secondo le abitudini ormai instaurate da Innocenzo VIII, fu dichiarato nullo perché «non consumato» dopo alcuni anni. Così Lucrezia poté per motivi politici, ma felicemente questa volta, sposare il principe Alfonso di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II di Napoli, nel 1498; e Lucrezia restò vedova due anni dopo perché il marito, ancora per motivi politici, fu ucciso da suo fratello Cesare. Il terzo matrimonio, sempre in chiave politica, con Alfonso d'Este, erede del ducato di Ferrara, celebrato per procura il 30 dicembre 1501 con veri e propri baccanali che durarono fino all'Epifania, l'avrebbe portata lontano da Roma e Lucrezia sarebbe vissuta da duchessa fino alla sua morte avvenuta nel 1519. Non va dimenticato che per ben due volte il padre, dovendosi assentare da Roma, le aveva affidato il governo della città, nobilitandola in tal modo come vicepapa, ovvero da autentica «papessa».

Per i figli dunque Alessandro VI impegnò il pontificato in chiave esclusivamente politica, dimostrando peraltro eccezionali qualità di fronte a Carlo VIII di Francia che, tra il 1492 e il 1493, in una serie di trattati si era assicurato l'appoggio dell'Inghilterra, della Spagna e dell'imperatore Massimiliano, nonché del signore di Milano Ludovico il Moro, con il fine d'impadronirsi del regno di Napoli come erede degli Angiò.
Importante per le future sorti dell'America, scoperta proprio all'inizio del suo pontificato, fu la divisione da lui fissata nel 1493  fra la zona sottoposta all'influenza della Spagna e quella sottoposta al Portogallo (Tractado de Tordesillas).
Il papa, inizialmente ostile agli Aragona, nel 1493 si riappacificò con Ferrante concretizzando l'alleanza nel matrimonio di suo figlio Goffredo con Sancha, figlia naturale di Alfonso di Calabria, e quando Ferrante nel gennaio dell'anno dopo morì, si affrettò ad infeudare Alfonso II re di Napoli; l'incoronazione fu celebrata a Napoli dal cardinale Giovanni Borgia. Era una sfida alle pretese di Carlo VIII, che immediatamente invase l'Italia: Firenze si arrese scacciando i Medici, e Alfonso II di fronte al pericolo cedette la corona al figlio Ferdinando II e fuggì in Sicilia. Gli Aragonesi in pratica non erano neanche ben visti dal popolo e il papa si trovò improvvisamente in una situazione difficile, accresciuta dallo stato di ribellione che subito i Colonna e altre famiglie nobili romane, appoggiate dal cardinale Giuliano della Rovere, fomentarono nello Stato pontificio. Si arrivò anche a parlare di una deposizione del papa.

Carlo VIII il 31 dicembre 1494 entrava a Roma senza trovare resistenza; Alessandro VI nel chiuso di Castel Sant'Angelo, trasformato in una nuova fortezza da Antonio da Sangallo, meditò astutamente un diverso atteggiamento nei confronti del re. Il 15 gennaio 1495 concedeva ufficialmente il libero passaggio alle truppe francesi nello Stato della Chiesa, offrendo il figlio Cesare in qualità di cardinale legato come guida per le truppe francesi fino ai confini del regno di Napoli. Fu un'abile mossa che riscattò in pieno Alessandro VI e non si parlò più di deposizione; anzi, in concistoro, Carlo VIII giurò obbedienza al papa.
Il 22 febbraio il re francese entrava a Napoli senza colpo ferire; anche Ferdinando II, vistosi abbandonato dal papa, era scappato a Ischia e di lì in Sicilia. Ma la facilità con la quale Carlo VIII aveva conquistato il regno nell'Italia meridionale rivelò subito a tutti gli Stati italiani la grave minaccia che si profilava per la loro stessa esistenza; e così il 31 marzo a Venezia si stipulava una coalizione antifrancese, con la presenza del papa, che nuovamente cambiava posizione. Carlo VIII ritenne opportuno ritirarsi. Riattraversò lo Stato pontificio senza che Alessandro VI s'impegnasse in un'inutile opposizione; l'esercito della lega lo bloccò a Fornovo, ma il re riuscì a passare ugualmente. A Napoli tornavano gli Aragona con Ferdinando II.

Salito sul trono di Francia Luigi XII, Alessandro VI mutò ancora politica e si alleò con il nuovo re; quando questi riuscì a scacciare Ludovico il Moro dal ducato di Milano, unendone il territorio alla Francia, il papa vide aprirsi ampi orizzonti per il figlio Cesare. Questi aveva rinunciato già dal 1498 alla dignità cardinalizia; svanito il matrimonio con una Aragonese e tramontata la prospettiva del principato di Taranto, egli si vide impalmato con la principessa Carlotta d'Albert, sorella del re di Navarra, per i buoni uffici di Luigi XII, che gli concesse inoltre il ducato di Valentinois, promettendogli aiuti per la conquista di uno stato in Romagna.
In questo modo Luigi XII si assicurò la neutralità dello Stato pontificio nella nuova spedizione che egli intendeva organizzare per la riconquista del regno di Napoli; e durante lo svolgimento delle campagne francesi in Italia tra il 1500 e il 1503, si attuò anche l'impresa del Valentino in Romagna.
Ad Alessandro VI si deve l'uso di aprire e chiudere il giubileo con  l'apertura e chiusura della Porta Santa
Alessandro VI s'impegnò nella ricerca dei mezzi occorrenti per finanziarla, ricorrendo alla simonia con la nomina di dodici cardinali, che dovettero pagare la porpora con una cospicua somma di denaro, e al mercato delle indulgenze in occasione del giubileo del 1500.
L'impresa militare fu opera principalmente di Cesare che, non rifuggendo da nessun mezzo pur di raggiungere il suo scopo, da autentico «principe» alla Machiavelli, occupò successivamente Pesaro, Cesena, Rimini, Faenza, Urbino e Senigallia, ricevendo dal padre il titolo di duca di Romagna; lo Stato pontificio perdeva in tal modo una sua grande provincia, che diventava principato ereditario dei Borgia.

Ma i piani di Alessandro VI e suo figlio non si fermarono qui; l'obiettivo finale era la secolarizzazione di tutto lo Stato pontificio sotto il regime dei Borgia. Essi si buttarono in questo grandioso progetto senza tregua, confiscando i possedimenti alle famiglie Colonna, Savelli e Caetani, impotenti di fronte alla situazione italiana così favorevole alle mire dei due. Il ducato di Sermoneta fu assegnato al figlio di Lucrezia, Roderico, di appena due anni, che si vide così infeudato da un nonno papa; il ducato di Nepi finì al più piccolo dei figli di Alessandro VI, Giovanni, anch'egli di soli due anni. Cesare s'impadroniva del ducato di Urbino e Camerino e con diabolica abilità sterminava spietatamente a Senigallia alcuni suoi capitani, che stavano tramando una congiura contro di lui.
Una volta spodestati anche gli Orsini, con l'eliminazione del cardinale Giovan Battista e la messa al bando di tutti gli altri, Alessandro VI e Cesare pensavano di completare l'opera con la conquista della Toscana; occorreva ancora denaro e il papa se lo procurò con altre nomine cardinalizie e la vendita di nuovi uffici della Curia. Il difetto fondamentale di questa grandiosa costruzione politica era quello di non esser sorretta da una effettiva classe di governo; tutto era basato sulla rapidità d'azione di un principe fornito di machiavellica «virtù», pronto a sfruttare la «fortuna» che gli proveniva da suo padre. Era chiaro che l'impalcatura sarebbe crollata non appena uno dei due elementi portanti fosse venuto meno; e così fu quando Alessandro VI morì improvvisamente il 18 agosto 1503. Cesare avrebbe seguitato a difendere il proprio prestigio sotto il breve pontificato di Pio III, fino ad accordarsi inizialmente anche con il successivo papa Giulio II; ma poi, abbandonato a se stesso, avrebbe perso tutto, fino ad essere arrestato da Consalvo di Cordova, gran capitano delle truppe spagnole a Napoli. Prigioniero in Spagna, avrebbe trovato sì rifugio presso il cognato, il re di Navarra, ma anche la morte nel 1507 nella sua ultima impresa sotto il castello di Viana.

Alessandro VI, nel vivo dei tumulti che scoppiarono alla sua morte, fu inizialmente sepolto in S. Pietro senza particolari celebrazioni funebri e trasferito poi nei sotterranei del Vaticano, in attesa di una degna sepoltura. Le sue ossa nuovamente rimosse, finirono in Santa Maria in Monserrato, la chiesa romana degli Spagnoli, dove restarono abbandonate per lungo tempo, trovando una loro sistemazione definitiva soltanto nel 1889. Molti stemmi di Alessandro VI andarono distrutti ma in Campo dei Fiori è possibile vederne uno che risparmiato.

Sulla natura della morte di papa Borgia, ufficialmente causata dalla malaria, ci sono sempre stati seri dubbi, avvalorati da storici illustri come Guicciardini: il papa sarebbe morto avvelenato per errore, in un ennesimo complotto da lui organizzato insieme al figlio Cesare ai danni del cardinale Adriano Castellesi di Corneto, di cui volevano incamerare i beni. Il cardinale li aveva invitati a pranzo nella sua villa sul Gianicolo, e il coppiere corrotto dai Borgia aveva versato della cantarella, un veleno a base d'arsenico, in un bicchiere di vino che doveva finire all'anfitrione; per un disguido fatale lo bevve invece Alessandro VI.
È poco credibile, perché altre fonti indicano che quel giorno il Castellesi era anch'egli colpito dalla malaria, senza contare che anche Cesare ne rimase contagiato. Ma un papa così non poteva non avere, perlomeno secondo la voce di Pasquino, una morte che non fosse in li­nea con la sua vita, come ricorda uno dei vari epitaffi anonimi scritti su di lui in latino e che così suona in volgare:

Tormenti, insidie, violenze, furore, ira, libidine, 
siate spugna orrenda di sangue e crudeltà! 
Giace qui Alessandro Sesto; godi ormai libera, 
Roma, perché la mia morte fu vita per te.

Una cosa è certa; Alessandro VI non fu quello stinco di santo che i suoi pochi apologeti, come il Ferrara e il Fusero, tentano di far credere. Per il primo fu «un sacerdote, nel senso più esclusivo della parola: condiscendente in ogni cosa umana, ma rigido per quel che riguarda i privilegi secolari della sua religione»; per il secondo «l'opera di Alessandro VI tendeva a salvaguardare l'unità del mondo cristiano... e a difenderne la purezza dottrinale».
Sono affermazioni veramente gratuite; l'unica opera del suo pontificato che ispiri un carattere religioso nacque dalle mani di un artista, la Pietà di Michelangelo. Lo stesso appartamento Borgia nel Vaticano, con gli splendidi affreschi del Pinturicchio, sembra evocare un ambiente di oscuri delitti.

La realtà è che Alessandro VI fu «senza scrupoli, senza fede, senza morale», secondo il categorico giudizio del Gervaso, che pure giustamente gli riconosce «un'eccezionale energia e un fiuto politico infallibile» per il quale va considerato «un pessimo papa» ma nello stesso tempo «un grandissimo monarca».
È che «in una società in cui, al dire d'un cronista, anche le pietre gridavano "riforma", il Borgia brillò per l'assenteismo e il disinteresse», come osserva il Molinari, anche se in una Chiesa umanistico-rinascimentale, al limite della credibilità nella fede stessa, «Alessandro VI da solo non è certo la causa determinante d'un così vasto deterioramento morale»; e a riprova di tutto ciò vale infine la constatazione «che Dio non era di moda neppure nel collegio cardinalizio, se un contemporaneo ha potuto scrivere che a Roma il Dio non è trino ma quattrino».

 


STATO DI FAMIGLIA: SCAPOLO CON 7 FIGLI.
PROFESSIONE: SOMMO PONTEFICE

di Paolo Deotto

E' cosa nota che un uomo innamorato fa e dice un sacco di sciocchezze. Leggiamo ad esempio questa lettera, scritta nel 1494 a Giulia Farnese, (formalmente sposa di Orsino Orsini), dal suo impetuoso amante, seccatissimo per una "scappatella" di Giulia col legittimo sposo: "Abbiamo udito che avete nuovamente rifiutato di tornare da noi senza il consenso di Orsino. Conosciamo la malvagità della vostra anima e dell'uomo che vi guida, ma non avevamo pensato per un sol momento che sareste stata capace di venir meno al vostro solenne giuramento di non avvicinare Orsino. Ma voi l'avete fatto, mettendo a repentaglio la vostra vita stessa per recarvi a Bassanello (la tenuta degli Orsini - N.d.R.) e cedere ancora una volta ai desideri di quello stallone. Pertanto vi ordiniamo con questa, sotto pena di scomunica e di eterna dannazione, che non vi rechiate mai più a Bassanello". Chi legge potrà giustamente osservare che questo focoso amante, oltre che autoritario, doveva essere anche un po' suonato. Ma chi credeva di essere, per minacciare scomuniche e dannazioni? Il Papa? Ebbene sì, in effetti lo era. Era Sua Santità ALESSANDRO VI, cardinale RODRIGO BORGIA, salito alla Cattedra di Pietro l'undici agosto di due anni prima. Giulia Farnese, di una quarantina d'anni più giovane di lui, era l'amante in carica pro-tempore. Per lei Rodrigo Borgia, quando non era ancora Papa, aveva lasciato la precedente amante, Vannozza Cattanei, dalla quale aveva avuto quattro figli. Il legame con una giovinetta lo aveva travolto e ringalluzzito, ma gli faceva provare anche i terribili morsi della gelosia. E, come abbiamo visto, gli faceva anche perdere un po' di senso del ridicolo, perché sarebbe stato interessante, se la minaccia contenuta nella missiva avesse avuto seguito, vedere una donna cattolica scomunicata dal Papa perché teneva fede ai propri impegni coniugali...non dobbiamo stupirci più di tanto poiché nella Roma del XV secolo era cosa più che normale che un cardinale fosse un uomo di mondo, corteggiato dalle belle donne: godeva, a tutti gli effetti, di quello che oggi è un titolo solo formale. Era un "Principe della Chiesa". E l'essere principe comportava un notevole potere e anche delle notevoli rendite economiche, un argomento, quest'ultimo, sempre molto valido in tutte le vicende amorose. Del resto la porpora cardinalizia era da tempo un privilegio che veniva concesso, il più delle volte, per ragioni di equilibri tra le diverse famiglie baronali di Roma e le varie potenze italiane ed europee con cui doveva fare i conti lo Stato della Chiesa per mantenere la sua posizione di preminenza all'interno del complesso gioco politico, fatto anche di matrimoni dinastici, di alleanze in perenne revisione, con l'aggravante del progressivo emergere di una classe mercantile che cercava, con le sue crescenti ricchezze, di prendere la sua parte di potere, spingendo via le vecchie caste nobiliari. Insomma, per molti cardinali la vocazione al sacerdozio era un optional quanto mai secondario. E i cardinali avevano, tra l'altro, il potere di eleggere il Papa, che era sempre scelto tra di loro. 

IL PAPATO, UNA MONARCHIA NON DINASTICA - Questa non era la situazione della Chiesa in generale. La Chiesa aveva già avuto tre secoli prima il grande risveglio spirituale del francescanesimo e ci sarebbero voluti ancora decenni prima che Lutero scatenasse il suo tifone. Nessuno in Europa metteva in dubbio le verità fondamentali della fede cattolica, ma a Roma la Chiesa conosceva la corruzione del potere, forse inevitabile per la duplice veste di autorità spirituale e temporale rivestita dal Papa. E si trattava di autorità temporale, si badi bene, tutt'altro che formale, che oltretutto si espandeva fuori dai limiti territoriali dello Stato Pontificio, perché la Chiesa pretendeva di mantenere comunque antichi privilegi (come la titolarità della corona di Napoli) o invocava, in nome della Fede, la protezione di altre potenze anche per fini unicamente politici, se temeva di restare schiacciata, ad esempio, tra le pretese delle corone di Francia e di Aragona, o se vedeva con sospetto l'affermarsi di un'identità nazionale spagnola sotto un'unica corona. La caratteristica assolutamente peculiare del Papato, di essere una monarchia non dinastica, contribuiva poi a rendere il gioco e soprattutto l'intrigo politico in perenne fermento, perché la mancanza di continuità data da una "casa regnante" faceva sì che con l'elezione di un Pontefice iniziassero subito le macchinazioni per l'elezione del successivo. Insomma, in grande stridore con un mondo occidentale che si proclamava cattolico, la Chiesa di Roma dava di sé uno spettacolo per nulla diverso da quello di tante altre corti europee, con l'aggravante di una dose massiccia di ipocrisia, inevitabile quando tutto, formalmente, veniva compiuto "Ad Maiorem Gloriam Dei". La nostra storia però inizia con un Papa austero, vecchio, malaticcio, noioso, pieno di ideali irraggiungibili: Callisto III, eletto Pontefice nel 1455, quando morì improvvisamente, a soli cinquantasette anni, Nicola V. Probabilmente il primo a restar sorpreso della nomina era stato lui stesso, l'eletto, Sua Eminenza Alonso Borja, arcivescovo di Valencia, che aveva ricevuto il cappello cardinalizio pochi mesi prima, e che aveva un'età, settantasette anni, in cui in genere non si fanno grossi progetti per il futuro. Il Cardinale Alonso Borja, che a Roma divenne Alonso Borgia, si trovava nell'Urbe da tempo per perorare la causa del suo re, Alfonso di Aragona, che, desiderando cingere anche la corona di Napoli, aveva bisogno dell'approvazione del Pontefice, che era, seppur formalmente, il sovrano anche di Napoli. 

UN BORGIA TIRA L'ALTRO - Alonso Borgia portò a termine bene il suo mandato ed ebbe in dono dal re Alfonso un palazzo e dal Papa il cappello di cardinale. L'arcivescovo di Valencia era un uomo che aveva passato la sua vita negli studi di legge, che all'epoca impegnavano moltissimi anni. A differenza di molti suoi colleghi, egli non era un vecchio "arnese di curia"; era un ecclesiastico severo e frugale che devolveva buona parte dei suoi proventi in beneficenza. Non gli si conoscevano amanti, nè passioni per le arti, per il teatro o per lo sfarzo, così di moda all'epoca. La sua unica passione era sempre stato l'arido linguaggio della legge, e si trovava a suo agio tra le pergamene, i documenti, i codici. Quando Nicola V morì, il cardinale Borgia era, oltre che avanti con gli anni, anche di salute malferma. E la sua nomina avvenne proprio per queste sue caratteristiche. I cardinali erano arrivati ad un punto morto: le alleanze si facevano e si disfacevano attorno ai nomi più quotati senza riuscire a raggiungere un risultato. A tutti parve a un certo punto un'ottima soluzione l'elezione di questo vecchio grigio, che non sarebbe vissuto a lungo, ma abbastanza per permettere la formazione di un gruppo dominante che potesse esprimere un Papa. Inoltre il cardinale di Valencia aveva il pregio di essere uno straniero, e di restare quindi al di fuori delle normali faide che dividevano le famiglie della nobiltà romana, abituate ad entrare pesantemente nel gioco che doveva concludersi con la conquista di un immenso potere spirituale e temporale. Insomma, il cardinale Alonso Borgia, papa Callisto III, non doveva essere che una parentesi che permettesse di riprender fiato alle varie fazioni, per poter meglio ricominciare le loro lotte, le loro alleanze, i loro intrighi. E in effetti il suo pontificato fu breve (tre anni scarsi), grigio come era lui stesso, che divenne ancora più aspro e scostante per il fallimento di quella che considerava la sua maggiore missione: una crociata. Ma Papa Callisto III, per quanto austero e riservato, non si sottraeva agli usi del nepotismo, tranquillamente accettato all'epoca, ed anche comprensibile in questo caso, per un uomo che desiderava circondarsi di compatrioti, trovandosi all'improvviso a dover prendere dimora definitiva in una città che non era sua e che, da sempre tollerante e cosmopolita, manifestava un'antica antipatia proprio per il popolo spagnolo, considerato un popolo di straccioni vanagloriosi, soprattutto ora che la nuova cultura rinascimentale faceva lievitare il gusto per tutto ciò che poteva esserci di bello e raffinato nel vestire, nel comportamento, addirittura nel modo di camminare e di mangiare.

...E ARRIVANO FROTTE DI SPAGNOLI - Roma iniziò a riempirsi di spagnoli, mal tollerati dai pur tolleranti romani, che non mancavano di far notare che, "se il vento spirava bene, si sentiva l'avanzare d'una compagnia di spagnoli ad un miglio di distanza", ironizzando così pesantemente su una presunta scarsa confidenza di quel popolo col sapone. Gli spagnoli a loro volta non nascondevano il loro disprezzo per i romani, considerati un popolo di rammolliti, se non addirittura di effeminati, salvo poi guadagnarsi il rimprovero dei romani, tenendo quei comportamenti di eccessiva sfrenatezza e dissolutezza che non si sarebbero mai potuti permettere in patria. Callisto III volle vicino a sé i due nipoti prediletti, Pedro e Rodrigo, figli di sua sorella Isabella, da poco rimasta vedova. Erano due giovani gagliardi, poco più che ventenni, e il Papa spagnolo vedeva in loro il sostegno della sua vecchiaia. Tra i due Rodrigo, il più brillante, era già predestinato alla carriera ecclesiastica; ed infatti aveva dovuto seguire i lunghi e complicati studi di giurisprudenza, che avrebbero potuto dargli l'accesso ai più elevati incarichi. E il Papa lo nominò, a soli venticinque anni, cardinale e vicecancelliere. Questa carica praticamente lo rendeva secondo solo al Pontefice sia negli affari amministrativi interni della Chiesa che nei rapporti con le altre potenze. Il fratello Pedro ebbe invece la carica di Prefetto di Roma. Il Prefetto era il funzionario che esercitava il potere temporale sull'Urbe in nome del Papa. Callisto, che adorava i due nipoti, non esercitò su di loro alcuna autorità, disinteressandosi del loro operato ed approvandolo a priori, preso com'era dalle varie incombenze della sua carica e dal pensiero di organizzare la Crociata. Malaticcio, dirigeva gli affari della Chiesa più dalla stanza da letto che dalla fastosa sala delle udienze, liquidando spesso le lamentele che gli giungevano sull'operato di Pedro come semplici espressioni di malevolenza contro gli spagnoli. Ma la realtà era diversa: mentre Rodrigo, di indole brillante ed affabile, sapeva farsi benvolere, Pedro era arrogante, convinto di esercitare un'autorità indiscutibile, per nulla conoscitore dell'animo dei romani, pronti a impiccare domani chi oggi veniva incensato. E Pedro si accorse amaramente dei suoi errori di comportamento quando la salute del Papa precipitò. Spinta dalla potente famiglia Orsini, che considerava la carica di Prefetto come una proprietà privata e pertanto aveva visto come usurpatore il giovanotto spagnolo che aveva come unico merito il fatto di essere nipote del Papa, la plebaglia romana iniziò una vera caccia allo spagnolo, che si interruppe per qualche giorno quando sembrava che Callisto si riprendesse, per poi ricominciare con accresciuta virulenza quando era chiaro che il Pontefice era ormai agonizzante. Le truppe papaline non intervenivano: era del resto una tradizione che la città piombasse nel caos alla morte del Pontefice, per riprendere poi la sua vita quotidiana quando il Conclave proclamava il nuovo eletto. 

IL FUTURO PAPA SE LA SQUAGLIA - Nel breve interregno nessuno voleva assumersi responsabilità eventuali di fronte al futuro padrone. E quindi i due spagnoli più eminenti, Pedro, Prefetto di Roma, abbandonato anche dal suo corpo di guardia personale, e Rodrigo, Cardinale vicecancelliere della Chiesa, fuggirono nella notte da Roma, travestiti, per raggiungere Ostia, dove una nave avrebbe dovuto portarli in salvo. Ma anche il capitano della nave aveva abbandonato il prefetto caduto in disgrazia, e pertanto i due fratelli presero la strada per Civitavecchia, dove peraltro Pedro, sfuggito al linciaggio dei vendicativi romani, trovò la morte per un'improvvisa febbre. Rodrigo invece a poche miglia da Civitavecchia, considerando il fratello ormai al sicuro, aveva ripreso la strada per Roma, dimostrando un notevole coraggio: anche se lui era benvoluto, ed era pur sempre un principe della Chiesa, gli Orsini non erano disposti a fare molte distinzioni fra spagnoli buoni e spagnoli cattivi. Ma nella città in preda alla plebaglia assetata di sangue spagnolo, Rodrigo riuscì a raggiungere il Vaticano e si portò al capezzale dello zio agonizzante. E lì attese, fino alla morte del vecchio Pontefice. A soli ventisette anni il cardinale Rodrigo Borgia, grazie al suo ufficio di vicecancelliere, era il porporato più alto in carica tra i diciotto conclavisti che si riunirono il 17 agosto 1458 per eleggere il successore di Callisto III. Di questo conclave ci è rimasta una vivida cronaca, redatta dal cardinale Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Siena, che ne uscirà come Papa, col nome di Pio II. E fu in questo conclave che il giovanissimo cardinale dimostrò la sua abilità e anche la sua spregiudicatezza nel capire da quale parte schierarsi. Inizialmente favorevole all'elezione del francese Estouteville, potente e ricchissimo vescovo di Rouen, Rodrigo si dichiarò poi apertamente a favore del vescovo di Siena, riuscendo, con questa esternazione, a trascinare anche gli ultimi riluttanti conclavisti. 

BORGIA COMINCIA L'ARRAMPICATA - Ma la sua scelta non fu determinata da pii motivi. Ammonito dallo stesso Piccolomini sull'inaffidabilità delle promesse del cardinale francese, che mai avrebbe riconfermato, al di là dei solenni impegni, nella fondamentale carica di vicecancelliere uno spagnolo, Rodrigo Borgia ebbe l'intuizione giusta e poi seppe sfruttare il suo ascendente e la sua personalità accattivante per far pendere l'ago della bilancia a favore di Piccolomini. E la naturale ricompensa da parte di Papa Pio II fu la riconferma del cardinale spagnolo nel delicato ufficio. Finalmente Rodrigo Borgia cessava di essere il nipote prediletto di un Papa regnante: ora doveva davvero misurarsi con le sue proprie forze, e l'esordio era stato promettente. Tra il novello Pontefice e il giovane cardinale, due uomini assolutamente diversi, pio e colto il primo, mondano e superficiale, seppur dotato di vivacissime doti intellettuali il secondo, si stabilì una collaborazione profonda. Pio II considerava Rodrigo un uomo "eccezionalmente abile" e lo voleva sempre al suo fianco. Rodrigo lo ripagava con una fedeltà e un'obbedienza assolute, conformandosi anche alle regole quasi puritane e monacali del Papa, parco nel mangiare, indifferente alla mondanità, ma in compenso sensibile allo sfarzo nelle cerimonie religiose, nella cui organizzazione il cardinale spagnolo era un vero maestro, come la processione del Corpus Domini. Non erano ancora gli anni in cui il cardinale Borgia sarebbe divenuto la delizia dei cronisti del pettegolezzo, sempre a caccia di scandali da offrire in diffusione al miglior offerente. In una sola occasione Rodrigo fece uno scivolone: per una questione di donne, una piccola orgia a cui si diceva avesse partecipato in occasione di un viaggio a Siena. La reprimenda del Papa fu pesante, le proteste di pentimento del giovane furono pronte. E mai più durante il pontificato di Pio II Rodrigo fece simili errori. Ormai stabilito a Roma, Rodrigo Borgia pensò anche alla costruzione di un palazzo adeguato alla sua posizione sociale. E lo fece proprio di fronte al Vaticano, sull'altra sponda del Tevere. Il suo palazzo, un palazzo-fortezza come erano tutti all'epoca, destinati ad abitazione sontuosa ma anche a rifugio nei non infrequenti periodi di caos, ci viene descritto dal Cardinale Ascanio Sforza, in una lettera che questi inviò la fratello Ludovico, il signore di Milano. E ne viene fuori la descrizione di un palazzo con una grande e disorganica esibizione di ricchezza: vasellame, tappeti preziosi, imbottiture in tessuti raffinati: tutto radunato senza un piano preciso, se non quello di sottolineare la propria agiatezza e magnificenza. 

UN PLAY BOY VESTITO DI PORPORA - Ben presto la piazza prospiciente il Palazzo Borgia divenne anche il luogo di frequenti spettacoli che il cardinale spagnolo offriva al popolino: rappresentazioni, musica, in un'occasione anche una corrida. Il popolo minuto non partecipava certo al conclave, ma rendersi popolare era comunque una buona politica, faceva comunque parte dei requisiti da avere se si voleva mirare in alto, molto in alto. Pio II morì nel 1464; dopo di lui regnarono i Papi Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII. E sempre al fianco del Pontefice vi fu il vicecancelliere cardinale Rodrigo Borgia. Solo un uomo di eccezionale valore poteva resistere per trentasette anni sotto quattro diversi papi. Consideriamo infatti che dopo la parentesi di Pio II, uomo devoto e religioso per quanto il suo tempo poteva permetterlo ad un sovrano regnante, con i successivi pontefici il mercanteggiamento della carica papale, l'assegnazione degli uffici in base alle alleanze politiche, erano divenuti ormai la prassi comune. In un clima di rilassamento morale totale, nessuno dei nuovi Papi avrebbe mantenuto nel suo alto ufficio il cardinale Rodrigo Borgia se non avesse dovuto riconoscere che ormai, in quel posto, ambìto da molti postulanti e quindi possibile merce di scambio per voti nel conclave, nessuno poteva fare meglio di lui. E Rodrigo si spianò la strada per diventare Papa: nessuno come lui era stato così al centro di tutti gli affari ecclesiastici più importanti di un trentennio. E la sua elezione a Papa l'11 agosto del 1492 non fu che il logico epilogo di una strada costruita con pazienza e tenacia. Quando divenne Papa Rodrigo Borgia aveva già sette figli (di cui quattro avuti dall'amante "ufficiale", Vannozza Cattanei e tre da altre donne), una nuova amante (come vedevamo all'inizio, la giovanissima Giulia Farnese), una situazione "familiare" decisamente intricata. E quest'uomo privo di scrupoli, che aveva costruito la sua strada per il potere con sagacia e pazienza, aveva però il suo tallone d'Achille: non tanto la sua esuberante passionalità, quanto il suo amore sviscerato per i figli, per i quali, come vedremo più avanti, mosse i suoi pochi, ma gravi, passi falsi. Forse, quando divenne l'uomo più potente della Terra, Padrone delle chiavi del Cielo, accarezzò anche, nel più profondo del suo animo, un folle sogno dinastico, che avrebbe trasformato la famiglia Borgia, di piccola nobiltà spagnola, nella famiglia più potente del mondo, per generazioni e generazioni. 

L'ORGIA SEGRETA DEL CARDINALE - Un sogno folle, che non possiamo che ipotizzare. Ma comunque una follia permeava un mondo dove era cosa normale e accettata che un uomo di Chiesa, non potendosi sposare, avesse una o più amanti, dove ormai solo l'apparenza contava. E parliamo di follia non tanto per un discorso morale, il peccato essendo compagno di strada quotidiano di ognuno, quanto per la doppiezza che si impone come modello di vita quando, nello sfascio morale, la salvezza delle apparenze diviene essenziale. Se ben guardiamo, lo stesso biasimo di Pio II per l'episodio dell'orgia di Siena ha qualcosa di grottesco. Logica avrebbe voluto che un Principe della Chiesa, colto in un tale peccato, subisse una durissima punizione. Ma in fondo quello che si rimproverava all'allora giovane Borgia non era tanto il peccato carnale, quanto che la cosa fosse divenuta oggetto di pettegolezzo. E Rodrigo Borgia dimostrò di essere il campione di questo mondo artificiale e schizofrenico. Nell'autunno del 1474 il notaio Camillo Beneimbene venne chiamato a Palazzo Borgia a presiedere una cerimonia nuziale, onorata dalla presenza del cardinale stesso, tra Vannozza Cattanei e messer Domenico d'Arignano, di professione "funzionario ecclesiastico". Si sarebbe detto che si celebrava il matrimonio di un parente povero ma caro al cardinale, che per particolare benevolenza gli aveva concesso l'uso della sua dimora sfarzosa per la cerimonia. La realtà era ben diversa. Questo matrimonio non fu che il primo di una lunga serie di atti formali con cui il cardinale Rodrigo Borgia intendeva dare "copertura legale" alla propria amante e ai figli che dalla stessa avrebbe avuto. Il marito morì pochi mesi dopo il matrimonio e Vannozza restò vedova per quattro anni, durante i quali dette alla luce due figli, Juan e Lucrezia, che vennero ad aggiungersi al primo, Cesare, nato un anno esatto dopo le nozze. Nei quattro anni successivi, Vannozza si sposò altre due volte, sempre con uomini scelti da Rodrigo Borgia, e mise al mondo altri due figli, Joffre e Ottaviano. Quest'ultimo fu l'unico riconosciuto dal legittimo marito, ma anche sulla paternità di Joffre esistevano dei dubbi, che lo stesso Borgia esprimeva nei momenti di collera. 

I MARITI DELLE AMANTI DEL PAPA - Del resto questi "incidenti" erano inevitabili in una situazione così delicata: il cardinale sceglieva i mariti per l'amante, preoccupato di dare sempre a quest'ultima una situazione di "legittimità". Ma doveva certamente convincere con sostanziosi argomenti gli sposi "pro-tempore" a subire una situazione che era una bazza per i pettegolezzi romani. E poteva darsi che un marito "formale" volesse dimostrare di essere anche un marito "sostanziale". Vannozza Cattanei veniva dai ranghi della più bassa nobiltà, e secondo i più maligni era una delle tante cortigiane, più abile di altre. Di certo fu per il cardinale spagnolo una compagna discreta che gli diede un lungo periodo di stabilità affettiva e che indubbiamente lo coinvolse profondamente, tant'è che il futuro Papa Alessandro concentrò tutte le sue attenzioni paterne sui figli avuti da Vannozza (Cesare, Juan, Joffre e Lucrezia), preoccupandosi molto meno per gli altri tre figli (Pedro, Gerolama e Isabella) nati precedentemente al suo legame con Vannozza e sulla cui madre riuscì sempre a mantenere il segreto più assoluto. Pedro ottenne il ducato di Gandia in Spagna, fu un soldato valoroso, e morì a soli trent'anni, nel 1488. Gerolama e Isabella vennero date in moglie a rappresentati minori della nobiltà romana. La prima morì giovanissima poco dopo le nozze, mentre Isabella sopravvisse a tutti i figli di Vannozza, li ignorò e fu da essi ignorata e morì ultrasettantenne, nel 1541. Vannozza, dicevamo, fu la compagna discreta e sottomessa. Prudente e avveduta, a differenza delle vere cortigiane che quasi sempre finivano la loro vita in miseria, seppe amministrarsi molto bene; del resto Rodrigo Borgia era ricchissimo e generoso. Le diede molto: ma le chiese anche molto. E Vannozza seppe ritirarsi silenziosamente quando il futuro Papa Alessandro si infiammò per la giovanissima nuova amante, e seppe obbedire in silenzio anche quando le furono sottratti i figli, affidati alle cure di Adriana da Mila, una cugina di Rodrigo, a lui devotissima. E proprio Adriana è senza dubbio la figura più misteriosa e ambigua in tutta la vicenda di Rodrigo Borgia. Adriana era nata a Roma, essendo suo padre venuto in Italia con la prima ondata di spagnoli, sotto il vecchio Papa Callisto, e aveva sposato un membro secondario della famiglia Orsini, da cui aveva avuto un unico figlio, nato poco prima che lei rimanesse vedova. E il figlio era quell'Orsino Orsini, uomo scialbo e senza particolari doti, che nel 1489 sposò la bellissima Giulia Farnese. La cerimonia si svolse nella Sala della Stella di Palazzo Borgia, e lo sposo, terminata la formalità, si ritirò subito nella tenuta degli Orsini a Bassanello. 

COTTA PER LA BELLISSIMA FARNESE - Il suo posto venne preso dall'ormai cinquantottenne cardinale Rodrigo Borgia, che da questo nuovo legame ebbe gioie e dolori, come vedevamo all'inizio e due figli, Rodrigo e Laura, anche se sulla paternità effettiva di quest'ultima molto si discusse, per una certa coincidenza di date con l'ultima "scappatella" di Giulia alla tenuta di Bassanello. La relazione con Giulia fu una delle maggiori manifestazioni di potere del cardinale Borgia: la potente famiglia Orsini non mosse un dito di fronte alla ridicola situazione di un loro membro. E i Farnese, nobili spiantati, ricevettero a loro volta il loro compenso, perché uno dei primi atti del nuovo Pontefice Alessandro VI fu la nomina a cardinale del fratello di Giulia, che ebbe così spianata la strada al futuro pontificato. Un enigma la posizione di Adriana, di fatto la suocera di Giulia. Fu la torbida organizzatrice di tutto, o si limitò ad accettare la situazione? L'unica cosa certa è che per Adriana da Mila Rodrigo era l'universo che lei venerava. E per il quale potrebbe anche aver costretto il figlio a recitare l'incresciosa parte di marito "putativo" dell'amante dell'adorato cugino. L'aggrovigliata situazione affettiva del cardinale Borgia era ben rappresentata anche in termini logistici: Giulia infatti andata a vivere con Adriana e con i figli che Rodrigo aveva avuto da Vannozza e che, come vedevamo, aveva dato in tutela alla devota cugina. C'era ormai materiale per deliziare i cronisti mondani e per alimentare i pettegolezzi a dismisura. L'antico livore romano contro gli spagnoli trovò nuovo alimento nell'esuberanza di questo cardinale spagnolo che spargeva figli in giro, preoccupandosi però di avere sempre amanti regolarmente sposate e ben sapendo, nel frattempo, che il segreto sulla sua situazione era il segreto di Pulcinella. E così sulla famiglia Borgia, tanto più quando Rodrigo divenne Papa Alessandro VI, si scatenò anche un diluvio di maldicenze, la più tenebrosa delle quali fu quella circa i rapporti incestuosi tra il Pontefice e l'adorata figlia Lucrezia, che a sua volta avrebbe avuto rapporti così obbrobriosi anche col fratello Cesare. Voci maligne, che non furono mai suffragate da prove. Ma comunque voci faticose da dissipare, per un uomo che, in ogni caso, non poteva certo dirsi un modello di virtù. 

SOTTO UNA TEMPESTA DI PETTEGOLEZZI - Ma queste voci non impressionavano più di tanto nè il popolo romano, avvezzo ormai a tutto, né il sacro collegio dei cardinali. Molti dei porporati avevano l'armadio così pieno di scheletri, da non pensare neppur lontanamente ad andare ad aprire gli armadi altrui. E gli scheletri non erano costituiti solo da peccati carnali, sui quali peraltro la Chiesa all'epoca era abbastanza indulgente. Il vero cancro che stava corrodendo la società era la corruzione dilagante: tutto era in vendita, era solo questione di prezzo. E naturalmente non mancarono le voci sull'"acquisto" da parte di Rodrigo Borgia dei voti in conclave per essere eletto Papa. Diversi anni dopo la morte di Alessandro VI queste voci vennero date come assolute verità dallo storico fiorentino Francesco Guicciardini. Qualche dubbio resta legittimo, sia per l'animosità che comunque il Guicciardini mai dissimulò contro gli spagnoli che avevano "infestato" Roma, sia perché il conclave da cui Rodrigo Borgia uscì con la bianca veste papale si svolse nel più assoluto segreto, sotto la ferrea vigilanza del maestro di cerimonie Johannes Burchard, funzionario arido ma scrupolosissimo nel far rispettare le regole, tra le quali esisteva quella della segretezza, violata solo, tanti anni prima, da Piccolomini. Comunque dobbiamo considerare anche altri aspetti, tra cui la conferma, da parte dello storico milanese Bernardino Corio, del fatto che il principale antagonista di Borgia, il cardinale milanese Ascanio Sforza, si era ritirato dalla competizione dopo una generosa elargizione di monete d'oro. Corio era uno studioso moderato e, soprattutto, bendisposto per ovvie ragioni di convenienza verso la grande famiglia milanese. Inoltre, tornando a quanto dicevamo prima, la corruzione era un costume talmente diffuso (già in uso ai tempi di Piccolomini, che nei suoi racconti riferisce di complicate transazioni monetarie tra i vari aspiranti alla carica suprema) che più nessuno se ne stupiva, almeno intimamente. Ma l'accusa poteva sempre tornare utile in un secondo momento, quando con più o meno ipocrisia si volevano trovare argomenti per colpire il regnante. 

ASCESE AL SOGLIO URLANDO DI GIOIA - Comunque per Rodrigo Borgia l'11 agosto 1492 restava la data in cui aveva raggiunto il suo scopo, né fece nulla per dissimulare la sua gioia. Al posto del tradizionale e compassato "Volo" con cui il nuovo Papa dichiarava l'accettazione della carica, Rodrigo, al termine dello scrutinio, gridò con entusiasmo: "Sono Papa!" e impartì subito la prima benedizione al popolo, mostrandosi raggiante e sorridente. E da subito mostrò le sue doti, dando equilibrio ai suoi primi provvedimenti da Pontefice regnante. Durante i giorni del conclave Roma era caduta, come di consuetudine, nel caos. Bande di teppisti avevano imperversato e si contavano oltre duecento morti. Alessandro capì che bisognava dare una risposta immediata al desiderio di ordine e di sicurezza. Scovare i delinquenti non era cosa difficile perché questi, per una lunga abitudine all'impunità, si pavoneggiavano delle loro imprese. Le milizie papaline ebbero ordini precisi e spietati, e divennero finalmente simbolo di legalità, di severissima legalità: le case degli assassini vennero rase al suolo, e sulle stesse macerie si innalzava la forca alla quale veniva impiccato il colpevole. E il 26 agosto, quando ci fu l'incoronazione ufficiale di Alessandro VI, Roma si presentava come una città tranquilla ed ordinatissima alla quale, quasi in premio del suo ravvedimento (sollecitato a colpi di impiccagioni...), il nuovo Pontefice donò uno di quegli spettacoli che facevano andare in visibilio il popolo. La cerimonia dell'incoronazione in San Pietro e il successivo corteo per andare a prendere formale possesso del Palazzo Laterano furono quanto di più sfarzoso si fosse mai visto a Roma, un misto di esibizione di magnificenza, di pomposità, di gigantismo. Al centro del corteo, che sfilò per oltre sei ore, stava l'imponente figura del Papa stesso, maestoso, dalla figura alta, massiccia e piena di energia, in sella ad un cavallo bianco, vero sovrano capace di ammaliare la fantasia delle folle. Iniziò così anche formalmente il regno di Alessandro VI, che per prima cosa si scontrò con una dura realtà: le finanze vaticane, al di là delle apparenze sempre sfarzose, vivevano in perenne asfissia, non essendo mai sufficienti le entrate a pareggiare completamente i costi di un apparato che era il più elefantiaco del mondo. Tra l'altro tutti i cattolicissimi regnanti europei avevano sempre diversi problemi quando si trattava di versare l'obolo dovuto alla Cattedra di San Pietro, mentre a carico delle finanze vaticane viveva un incredibile numero di persone non produttive, dipendenti di una burocrazia antiquata ma in perenne crescita, ivi inclusi quei cardinali a cui la Chiesa era tenuta a provvedere "comunque" e in misura adeguata al loro status di Principi. 

BUSTARELLE PER LE INDULGENZE - Insomma, nonostante la Chiesa avesse varie entrate, comprese quelle derivanti dal quasi monopolio sulla produzione dell'allume (sostanza indispensabile per tingere le stoffe), proveniente dalle miniere della Tolfa, poiché non si riuscivano a comprimere le spese, era necessario reperire nuove forme di guadagno. E fu con Alessandro VI che la vendita delle indulgenze e degli uffici ebbe uno sviluppo così smaccato da suscitare scandalo anche in una società che sembrava ormai capace di assorbire qualsiasi nefandezza. Addirittura esisteva un ufficio apposito, la Datarìa, che aveva il compito di mettere ordine in questo settore. E ai fondi della Datarìa il Papa poteva accedere direttamente, senza passaggi burocratici, che si sarebbero rivelati comunque imbarazzanti, perché Alessandro VI aveva bisogno di molti soldi, non solo per le sue spese "familiari", ma anche per far fronte alle ambizioni sempre maggiori dei figli. Nei piani del Pontefice ognuno dei figli aveva un posto ben preciso. Mentre la prediletta Lucrezia era comunque destinata, dati gli usi dell'epoca, a divenire "merce di scambio" per matrimoni politici. Cesare, a soli diciotto anni, ebbe la porpora cardinalizia, nello stesso concistoro che nominò cardinale anche il fratello di Giulia Farnese. Juan era invece destinato alla carriera "civile": succeduto al fratellastro Pedro nella titolarità del ducato di Gandia in Spagna, ebbe una rapida ascesa, divenendo successivamente anche capitano generale, signore di Terracina e Duca di Benevento. Ma questa veloce carriera fu interrotta bruscamente la notte del 14 giugno 1497, quando Juan, dopo aver partecipato ad una festicciola familiare in casa di Adriana, la cugina prediletta del padre, non fece più ritorno a casa. Il suo corpo fu rinvenuto due giorni dopo nel Tevere; il Duca di Gandia era quasi irriconoscibile, martoriato da diecine e diecine di colpi di pugnale e di spada. I sicari avevano fatto un lavoro accurato. La morte di Juan gettò il Papa nella più cupa disperazione, acuita anche dal mistero che circondò l'assassinio e dalle voci insistenti che volevano il fratello Cesare non estraneo al crimine. In effetti quest'ultimo da tempo scalpitava, mal accettando la sua posizione di ecclesiastico, seppur di altissimo rango, e non nascondendo la sua invidia per la carriera mondana e politica in cui invece era avviato il fratello. 

CESARE, UN MOSTRO FIGLIO DI PAPA - E in effetti, mentre l'incolore Joffre andava sposo, giovanissimo, a Sancia d'Aragona, e si trasferiva poi nel Regno di Napoli, dove sarebbe morto nel 1517, Cesare iniziò la sua incredibile ascesa dopo la morte del potente fratello Juan. Si dice che Cesare esercitasse sul padre una notevole e nefasta influenza: sta di fatto che Alessandro VI, che per creare Cesare cardinale non aveva esitato a compilare un falso documento in cui lo si dichiarava "nipote", al quale era stato concesso benevolmente l'uso del cognome Borgia, non seppe rifiutare la richiesta del figlio, che ora voleva essere ridotto allo stato laicale. E Cesare, ora che aveva anche formalmente la libertà di agire, iniziò la sua avventura. Ottenuta dal Re Carlo VIII di Francia (formalmente alleato del Papa dopo la goffa "invasione" dell'Italia del 1494 con la quale il giovane monarca voleva, tra le altre cose, deporre Alessandro, Papa corrotto e simoniaco, e fu da questi invece subornato) il titolo di Duca di Valentinois, divenuto cognato del Re di Navarra, iniziò l'invasione delle Romagne con truppe fornite dal re francese e finanziate dal pontefice. Ufficialmente il "Duca Valentino" (così era chiamato in Italia) doveva rivendicare i diritti papali su quelle terre: di fatto iniziò la costruzione di un suo regno personale, conquistando Imola e Forlì e ingrandendosi via via fino a raggiungere Perugia e Città di Castello. In tutte queste campagne diede prova di crudeltà senza pari, ricorrendo, quando lo reputava conveniente, al tradimento e all'inganno. Il Papa stava a guardare questo figlio che ormai gli impartiva ordini, gli ingiungeva di non allearsi con gli Aragonesi per non creare imbarazzi al Re di Francia, costruiva un regno sui territori che erano della Chiesa. Fu Cesare Borgia l'ispiratore di Machiavelli quando questi volle descrivere il tipo ideale di "principe". E Cesare, già sospettato per l'assassinio del fratello, fu anche il principale indiziato per un altro fosco episodio, che si consumò addirittura all'interno delle mura vaticane: l'uccisione di Alfonso di Aragona, marito di Lucrezia, che l'aveva dovuto sposare quando il padre Alessandro, interessato a stringere alleanza con la casa d'Aragona, fece dichiarare nullo il primo matrimonio della figlia con Giovanni Sforza. 

.... E AMBIZIOSO FINO ALL'OMICIDIO - Un primo tentativo di assassinio andò a vuoto: ignoti sicari accoltellarono Alfonso, ma la forte fibra del giovane ebbe la meglio. Si dice che Cesare, che si recò in visita al capezzale del ferito, fu sentito sussurrare "ciò che non s'è fatto per colazione, si farà per cena." Probabilmente la frase è inventata. Sta di fatto che il matrimonio "politico" di Lucrezia con un membro della casa di Aragona cozzava contro gli interessi del re di Francia e quindi contro quelli del Duca Valentino. E il 18 agosto 1500 Alfonso di Aragona, convalescente dalle ferite, fu trovato strangolato nel suo letto. Da parte di molti fu fatto il nome di Cesare. Il padre, l'uomo che non aveva avuto alcun scrupolo per spianarsi la strada al papato, né alcun scrupolo nel creare ricchezze e titoli per i figli, l'uomo che, come si diceva a Roma "vendeva le opere della Chiesa e poteva ben farlo, visto che le aveva comprate", ormai manifestava apatia, incapacità a dominare il figlio, mentre la figlia prediletta Lucrezia prendeva la via della corte Estense di Ferrara, andando sposa al duca Alfonso d'Este, finalmente svincolandosi dalla corte vaticana e vivendo serenamente, apprezzata dai suoi nuovi sudditi, i suoi ultimi anni. Cesare continuava a imperversare: stroncò la ribellione di Senigallia, e fu anche l'occasione per regolare i conti ormai ultradecennali con la famiglia Orsini. Alessandro VI fece imprigionare a Castel Sant'Angelo il cardinale Orsini, lo fece avvelenare, confiscò i beni di famiglia, sfrattò familiari e servi. Cesare a questo punto giudicò di poter eliminare i fautori della rivolta di Senigallia, i due nipoti dell'ormai eliminato cardinale Orsini, e li fece strangolare. Alessandro VI, si diceva, era ormai uno strumento nelle mani del Duca Valentino, vittima del mostro da lui stesso creato, di questo figlio che aveva appreso dal padre una vita di inganni, scelleratezze, consumate all'ombra della Croce di Cristo. E il 18 agosto del 1503 Alessandro VI, stroncato da un attacco di malaria, morì. Erano passati esattamente tre anni dal giorno in cui una mano omicida aveva messo fine, nel suo stesso palazzo, alla vita di Alfonso di Aragona. Le leggende fiorirono anche sulle ultime parole del Papa: secondo alcuni morì invocando il Demonio, secondo altri fece in tempo a chiedere perdono dei propri peccati. 

MORI' INVOCANDO SATANA... SI DISSE - Resta il fatto che, pur sfrondandolo dalle molte leggende, il pontificato di Alessandro VI rappresenta probabilmente il punto più basso a cui arrivò la storia della Chiesa. L'aver abbellito Roma, o l'aver protetto artisti come il Pinturicchio o il Sangallo rientrava in uno stile rinascimentale: era quasi un dovere. Ma la morte di papa Rodrigo Borgia, Alessandro VI, che, salvo una vaga devozione, più che altro di maniera, per la Vergine, non mostrò mai altri interessi che non fossero quelli di sfrenato potere per sé e per i suoi figli, questa morte, dicevamo, non suscitò commozione né rimpianti in alcuno. Roma, eterna e a tutto adattabile, mise pochissimo tempo a far sparire ogni traccia dell'esecrando periodo. La vita continuava. La morte del Papa fu l'inizio della fine per Cesare Borgia. Il Duca Valentino era caduto malato assieme al padre, ma la sua forte fibra e la giovinezza ebbero la meglio sul morbo. Conscio del fatto che senza Alessandro VI i suoi molti nemici avrebbero iniziato a presentargli il saldo dei conti, Cesare ebbe però motivo di sperare con l'elezione a Papa di Francesco Piccolomini, nipote di Pio II, che prese il nome di Pio III. Quest'ultimo confermò Cesare Borgia nella carica di capitano generale della Chiesa. Ma il pontificato di Pio III non durò che un mese: vecchio e malato, il Papa morì il 18 ottobre del 1503, probabilmente anche a causa delle fatiche imposte dalla complicata cerimonia dell'incoronazione. E dopo la morte di Pio III, Cesare fece il suo primo grave errore di valutazione, brigando (disponeva ancora del controllo dei cardinali spagnoli) per l'elezione a Papa di Giuliano della Rovere, già acerrimo nemico di Alessandro VI. Della Rovere divenne Papa, col nome di Giulio II, e subito disattese le promesse che aveva fatto a Cesare in cambio dell'appoggio dei porporati spagnoli, tra cui quelle di confermarlo nella carica di capitano generale e di tutelare il "suo" ducato di Romagna, che senza la sua presenza si andava sfaldando. Cesare Borgia non contava più senza l'uomo che era il suo specchio e il suo succube, Alessandro VI. Svanito il sogno del Regno in Romagna, imprigionato dal già amico Re di Francia, Cesare, passato ora al servizio della Navarra, morì nel 1507 presso la città spagnola di Viana, dove si trovava alla testa di un esercito navarrino, per combattere la ribellione del conte Juan di Beaumont. Le circostanze della sua morte sono note: fu ucciso da alcuni soldati di Beaumont, che se l'erano visto arrivar contro, solo, in una specie di forsennata carica. Meno noti sono i reali motivi del comportamento di Cesare, che fece il marchiano errore (difficilmente pensabile per un generale del suo valore) di arrivare da solo a contatto del nemico, essendosi tagliato fuori dal collegamento col resto dell'esercito. E infatti non pochi parlarono di suicidio, un suicidio condotto con energia, virulenza, e comunque con coraggio. Un suicidio degno del Duca Valentino.