Conclave
Per superare le solite controversie i cardinali stettero in conclave due mesi e proprio
per le pressioni esercitate dal re Sole, finì per essere eletta il 21 settembre 1676
una persona che gli sarebbe stata particolarmente ostile, il cardinale Benedetto Odescalchi.
Vita
Era nato a Como il 16
(o il 19?) maggio 1611 dal nobile Livio Odescalchi e da Paola Castelli di Grandino
Bergamasco, una ricca famiglia di commercianti. Dopo una prima educazione ricevuta in famiglia, frequentò il collegio dei gesuiti di Como, dove fu iscritto alla Congregazione Mariana, onore riservato agli alunni migliori; a undici anni rimase orfano del padre e a quindici anni nel 1626, dopo aver ultimato i corsi umanistici, si trasferì a Genova presso lo zio
Papirio, che dirigeva la “Società Odescalchi”, per fare pratica nell’attività amministrativa e negli affari.
Nel 1630, la madre morì colpita dall’epidemia di peste, che invece risparmiò
Benedetto. Passarono alcuni anni in cui si alternò fra Como e Genova, finché nel 1636 si spostò a Roma dove frequentò per un biennio, i corsi di diritto civile e canonico alla Sapienza, completandoli poi a Napoli, dove si laureò in ‘utroque jure’, il 21 novembre 1639.
Era calato a Roma ancora laico e con quell'altezzosa aria "spagnoleggiante" così ben rappresentata dal Manzoni in tanti personaggi del suo romanzo. Arrivò con spada e pistole, con l'intento di diventare un "signorotto" nel reame di Napoli o sfondare nella carriera militare; fosse rimasto sul "ramo del lago di Como" sarebbe probabilmente diventato un don Rodrigo o meglio, con le qualità indubbie che aveva, un Innominato. Benedetto Odescalchi invece il suo cardinale lo incontrò prima di prendere la strada "sbagliata"
e maturò la sua conversione religiosa.
A Napoli ricevé la tonsura il 18 febbraio 1640. Ritornato a Roma in pieno periodo barocco, intraprese spinto dal fratello Carlo, la carriera ecclesiastica, conducendo una vita da prelato romano, ricoprendo varie cariche nella Sede Apostolica, ma senza farsi coinvolgere dallo sfarzo della vita romana seicentesca, anzi conduceva vita ritirata, dedito alla beneficenza nascosta.
Protonotaro apostolico e presidente della Camera apostolica, sotto Urbano VIII, svolse poi l'ufficio di ‘Commissario straordinario delle tasse’
nella marca di Ancona, compito che assolse con competenza e umanità, prudenza e fermezza.
I risultati ottenuti gli ottennero nel 1644 la carica di governatore di
Macerata. Rifiutò le propine giudiziarie che gli sarebbero spettate; erano "il prezzo del sangue" e non voleva che contaminassero il suo spirito.
Il nuovo papa Innocenzo
X gli conferì titoli onorifici e nel 1645 lo creò cardinale diacono, a soli 35
anni. Benedetto proseguì la sua attività presso la Curia.
"Ritratto del Cardinale Benedetto Odescalchi, futuro Papa Innocenzo XI"
di Jacob-Ferdinand Voet, 1660 circa, Museo Poldi Pezzoli, Milano.
Nel 1648 papa Innocenzo X, allo scopo di arginare le difficoltà della popolazione di Ferrara, per la prolungata carestia, lo nominò governatore della suddetta
provincia, convinto della purezza dello spirito evangelico che ispirava il giovane porporato. "Mandiamo il padre dei poveri", commentò nell'affidargli l'incarico; e lui con abnegazione corse ai ripari per la carestia in cui languiva quella
città: la sua accorta politica economica, l’approvvigionarsi dalla Puglia del grano necessario, la lotta alle frodi, la distribuzione di viveri e denaro ai poveri, il calmiere dei prezzi, diedero vita all’economia delle afflitte popolazioni, così sui muri veniva scritto “Benedictus qui venit in nomine Domini”; “Viva il cardinale
Odescalchi, padre dei poveri”.
Nel 1650 il papa lo nominò vescovo di Novara e giacché Benedetto non era sacerdote
(il titolo di cardinale, contrariamente ad oggi, non richiedeva necessariamente
che fosse un consacrato), accettò la volontà di Dio, divenendo presbitero il 20 novembre 1650 e poi consacrato vescovo il 30 gennaio 1651, consacrazioni avvenute in Ferrara.
Prendendo a modello le costituzioni sinodali di S. Carlo Borromeo, anche se non aveva un’esperienza diretta della cura pastorale delle anime, lavorò con uno zelo illuminato ed ardente in tutti i campi della vita ecclesiastica e sociale della
diocesi; mise in mostra la sua generosità verso i bisognosi e nello stesso tempo si mostrò di una severità civile e religiosa che rievocava le figure di Pio V e Sisto
V.
Nel 1654 andò a Roma per la periodica visita ‘ad limina,’ e il papa lo trattenne presso di sé come consigliere, cosa che fece anche il suo successore papa Alessandro
VII; costretto da tale situazione a stare lontano da Novara, nel 1656 chiese al papa di essere esonerato dal compito di vescovo residenziale; rimanendo così a Roma al servizio della Chiesa.
Per un cronista del tempo era solo un "bacchettone", ovvero un bigotto, e Pasquino era convinto che non ce l'avrebbe fatta ad essere eletto nel conclave del 1676:
Odescalchi, quel grandone, va sperando ne' conclavi,
ma non toccano le chiavi a chi fa del bacchettone.
Papa
Juvarra: Stemma di Innocenzo XI
realizzato da Carlo Maratti in S. Pietro
(Clicca per saperne di più)
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E invece fu eletto; dicono che si mostrasse riluttante al massimo nell'accettare la nomina, giungendo a gettarsi in ginocchio davanti ai cardinali, scongiurandoli tra le lacrime di scegliere qualcun altro. Dovette accettare e fu consacrato papa il 4 ottobre assumendo il nome di Innocenzo XI. Gli presentarono un simbolo nel quale, alludendo al nome scelto, era scritto: "Innocens manibus et mundo corde". Lo trovò adulatorio e lo sostituì, in riferimento alla barca di San Pietro, con l'invocazione: "Domine, salva nos, perimus!".
Un papa così austero e rigido nei costumi fu il toccasana per l'amministrazione finanziaria dello Stato pontificio; non c'era equilibrio fra le entrate e le uscite. Il deficit era tale che si rischiava la bancarotta. Innocenzo XI riuscì a riportare ordine con drastiche misure di risparmio, tanto che alla fine del suo pontificato il bilancio risulterà attivo.
Per
tutto il suo pontificato, durato tredici anni, condannò
usura
e lusso, e tuttavia esortò alla carità e alla beneficenza, dando il suo personale esempio all’ascetismo.
Contro il nepotismo
Abolì la carica di “cardinal-nepote”, avrebbe voluto che
la piaga del nepotismo fosse abolita per sempre e che tutti i cardinali giurassero il rispetto di una bolla al riguardo. Ma il Sacro Collegio si oppose compatto a un simile decreto. Per quanto lo riguardava, comunque, convocò l'unico nipote che aveva, Livio, figlio del fratello Carlo, e gli impose di seguitare gli studi presso i Gesuiti per ottenere, esclusivamente in virtù delle sue capacità, qualche ufficio. Si togliesse pure dalla testa doni e onorificenze; avrebbe potuto contare solo su quelle lasciategli da lui come zio dalla sua parte di patrimonio. All'ambasciatore imperiale, che si faceva garante di speciali protezioni per gli Odescalchi, rispose che il papa non aveva né casa né famiglia, ma solo una dignità avuta in prestito da Dio.
Assegnò la Segreteria di Stato al suo amico, il cardinale Alderano Cibo, del quale si fidò ciecamente, e con lui programmò una lotta senza quartiere ad abusi e scandali di corte, denunciando ogni forma di corruttela. In un concistoro scongiurò i cardinali di abbandonare carrozze e livree per un tenore di vita più ecclesiastico; con una serie di leggi dette "innocentine" diminuì le spese dei tribunali per purificarli da ogni apparenza di venalità.
Contro il "probabilismo lassista"
In quest' opera di rigida osservanza dei principi morali rientra anche l'atteggiamento
severo preso da Innocenzo XI contro il "probabilismo lassista", allora particolarmente
sostenuto da alcuni Gesuiti;: per soffocare certa tendenza antiregolista egli riuscì a trovare
un valido appoggio in Tirso Gonzales, docente all'università di Salamanca, che divenne poi
generale dell'Ordine. La seria preoccupazione di mantenere pura la dottrina cattolica sulle questioni di fede e di costume si manifestò nella ferma azione condotta contro il "quietismo", una subdola corrente mistica che faceva capo al sacerdote secolare spagnolo Miguel de Molinos. Arrestato e tradotto davanti al tribunale d'Inquisizione, egli riconobbe gli errori dei suoi insegnamenti tendenti a trascurare tutte le pratiche di pietà esteriore; li abiurò, ma fu condannato ugualmente al carcere a vita. Furono perseguitati tutti i suoi seguaci, tra i quali era però un cardinale, il vescovo Pietro Petrucci, autore di alcuni scritti ispirati al Molinos; Innocenzo gli evitò di comparire davanti all'Inquisizione, gli lasciò tutte le dignità, ma le sue opere furono poste all'Indice. Un processo ad un cardinale sarebbe stato diffamante per la Santa Sede. .
Povero Innocenzo! non sapeva di esser proprio "solo" in quest'opera di moralizzazione. S'illudeva, mentre non avrebbe dovuto fidarsi neanche del cardinal Cibo, che invece si teneva sempre vicino, come ricorda Pasquino con ironia:
È l'Odesca1chi un'affamata fiera
che chiede cibo ognor, da mane a sera.
Ma anche lui lo tradì perché, come ricorda il Giuntella, "conservò ad insaputa del papa una pensione del re di Francia", vale a dire, oltretutto, del suo più diretto nemico, con il quale il papa combatté da pari a pari.
Contro Re Sole
Tutto dipendeva dalla questione delle "regalie", venuta fuori sotto Clemente X; il re Sole non ci pensava nemmeno lontanamente a rinunciare a quel diritto della corona. Lo considerava inalienabile, forte anche dell'appoggio che il clero francese gli dava pur di opporsi all'autorità del papa in un insorgente rinnovato spirito d'indipendenza nazionalista. Questo si evidenziò nella celebre
"Dichiarazione del clero gallicano sul potere della Chiesa" formulata nel 1682 dal vescovo di Meaux, Jacques Bossuet, approvata dall' assemblea ecclesiastica e registrata dagli Stati Generali per ordine del re.
Articolata in quattro punti, essa contemplava l'indipendenza del potere laico da quello ecclesiastico, la superiorità del concilio sul papa, l'intangibilità delle tradizioni canoniche francesi e l'infallibilità del papa sulle questioni di fede, condizionata però al consenso della Chiesa Universale. La "Dichiarazione" era e restò poi una sorta di manifesto delle libertà gallicane, che il re Sole elevò al rango di articolo di fede, da insegnarsi come dottrina in tutte le scuole del regno. Se il papa si astenne dal condannare definitivamente i quattro articoli, è perché sperava di arrivare ad un accomodamento amichevole. Si limitò a riprovarli, rifiutando cioè l'approvazione di tutti i candidati vescovili proposti dal re e che avevano partecipato all'assemblea del clero. Ben 35 diocesi francesi risultarono vacanti; i neoeletti potevano godere delle entrate delle diocesi, ma non avrebbero ricevuto l'ordinazione e non potevano quindi esercitare le funzioni ecclesiastiche proprie del vescovo.
Il re Sole volle allora mostrare le buone intenzioni di perfetto ortodosso, scatenando una crudele campagna contro gli ugonotti; si aspettava una resa del papa, con quel bel servizio riservato alla Chiesa cattolica e all'Inquisizione, che certo avrebbe fatto impazzire di gioia un Gregorio XIII. Ma la risposta d'Innocenzo lo lasciò interdetto: "Cristo non si è servito di questo metodo; bisogna condurre gli uomini al tempio, non trascinarveli dentro". Era un rifiuto dei metodi di costrizione alla Pio V.
Allora Luigi XIV provocò il papa con un altro mezzo. Quando una bolla del 1687 dichiarò decaduta la "libertà di quartiere", cioè l'immunità diplomatica di un'ambasciata sul quartiere romano in cui essa si trovava, la Francia si rifiutò di rispettare quel decreto, accettato invece dalle altre nazioni. Era in effetti dettato da norme di ordine pubblico per rendere più libera l'attività della magistratura e della polizia pontificia, e quindi risultava "protettiva" anche nei confronti dell'ambasciata stessa.
L’oratore’ (ambasciatore) di Francia presso la Santa Sede, Henri Lavardin, si presentò a Roma con un paio di squadroni di cavalleria, pretendendo spavaldamente il diritto d'asilo ad ampio
raggio e trasformando la sua residenza in una quasi fortezza. "Essi vengono con cavalli e cariaggi", commentò Innocenzo, "noi vogliamo andare avanti invece nel nome del Signore"; pose l'interdetto sulla chiesa di S. Luigi e scomunicò l'ambasciatore. Il re Sole rispose da Parigi appellandosi ad un concilio ecumenico su tutte le controversie, ma contemporaneamente fece occupare Avignone e impedì al nunzio pontificio Angelo Ranuzzi di tornare a Roma; in pratica lo trattenne in stato d'arresto. Infine minacciò d'invadere lo Stato pontificio; ma non giunse a tanto.
Era comunque la rottura completa tra la Francia e la Chiesa di Roma, con uno scisma operante, seppure non apertamente dichiarato, che non si sarebbe composto in tempi brevi, con tante divergenze insolute. Innocenzo XI tuttavia pensò di colpire Luigi XIV screditandolo su un piano internazionale, appoggiandosi agli Stati che si 'opponevano in Europa alla sua egemonia; e si ritrovò, senza volerlo, alleato con i protestanti. .
Inviò infatti notevoli sussidi in denaro al principe Guglielmo d'Orange, che aveva assunto il comando supremo sul Reno in difesa dei diritti dell'impero e della Chiesa contro Luigi XIV; il papa era all'oscuro invece delle trame inglesi tendenti a detronizzare il cattolico re Giacomo ed offrire il trono alla principessa d'Orange. E si arrivò. al controsenso che, mentre "alla corte di Roma dovevano stringersi le fila di un'alleanza che si proponeva, e che realizzò, il fine di liberare il protestantesimo dell'Europa occidentale dall'ultimo grave pericolo che lo minacciava, e di garantire perpetuamente il trono d'Inghilterra alla confessione protestante", come ha mirabilmente evidenziato il Ranke, "i protestanti d'altra parte, difendendo l'equilibrio europeo contro la "potenza esorbitante" dovevano contribuire a che questa cedesse anche alle rivendicazioni ecclesiastiche del papato".
Contro i Turchi
Più fruttuosa fu l’intensa opera diplomatica svolta dalla Chiesa nel coalizzare le forze europee contro l’avanzata turca e negli anni dal 1677 al 1686 fu tutto un susseguirsi di firme di trattati di pace, tregue, alleanze, Lega santa, culminate nel
1683 nella battaglia per la difesa di Vienna e di Buda nella quale i cristiani riportarono una grande vittoria, riuscendo a strappare le bandiere ai Turchi; i trofei furono trasportati a Roma e deposti nella nuova chiesa di S. Maria della Vittoria. Il papa ordinò che, a perpetua memoria, si celebrasse in tutta la Chiesa la festa del Nome di Maria.
Innocenzo
aveva proclamato che primo dovere del papa era la propagazione e difesa della fede cattolica;
per questo aveva anche eretto nuove diocesi in Brasile, costituito le università domenicane di Manila e in Guatemala, favorito le missioni carmelitane in Persia, cercando di abolire il commercio degli
schiavi. Riceveva personalmente i missionari per essere informato sulle situazioni locali.
Diceva: “Come dall’Oriente a noi era venuta la fede, così doveva l’Occidente ridarla agli orientali”. Favorì grandemente l’insegnamento catechistico ai fanciulli, ai soldati, a tutti i fedeli, facendo compilare un programma d’insegnamento, fece preparare a tale scopo un collegio di maestre chiamate ‘maestre
Odescalchi’.
L'altro successo venne nel 1686 con la liberazione di Buda ad opera di Carlo di Lorena, che l'anno dopo riportava una grande vittoria a Mohacz, avvio alla
liberazione di gran parte della regione dei Balcani dal giogo ottomano. Il grande avvenimento, come riportano le cronache del tempo, fu festeggiato dallo scampanio continuo per un'ora da tutti i campanili di Roma.
Improvvisamente dunque la crociata ebbe un senso per gli Stati europei, ma furono senz'altro politiche le motivazioni; piuttosto la patina cattolica di cui si colorò servì ad Innocenzo XI per controbilanciare il compromesso protestante nel tete à tete con Luigi XIV. Universalità di un operato cristiano del papa, al disopra di ogni dottrina, o propaganda cattolica in veste di opportunismo politico? I tempi non erano maturi per la prima ipotesi e le velleità gallicane non erano peraltro così morbide da essere smorzate dal festante
din-don delle campane romane. Più probabile la seconda ipotesi, nella quale la santa figura del pontefice faceva riacquistare credibilità internazionale allo Stato pontificio con uno spargimento di sangue sia pure all'insegna della croce. Per Pasquino si trattò di "ipocrisia", come stigmatizzò alla
morte di Innocenzo XI, avvenuta il 12 agosto 1689:
Io non ritrovo ancor nei vecchi annali
bestia peggior, che sotto hipocrisia
col sangue altrui tingesse il becco e l'ali.
Per il popolo dei fedeli invece Innocenzo XI, che negli ultimi anni aveva anche sofferto molto nel fisico
a causa di varie malattie, morì da santo e qualcuno, come un anonimo citato dal Castiglioni, lo
esaltò:
Morto è Innocenzo, e tal morì qual visse:
saggio, santo, pietoso, invitto e forte.
Pio XII lo beatificò il 7 ottobre 1956. È sepolto in uno splendido mausoleo, opera dello scultore Pietro Stefano
Monnot, sotto l'altare di S. Sebastiano nella basilica di S. Pietro.