Lucio Tarquinio detto il "Superbo"
(riferimento cronologico: 549 - 509 a.C.)

Ancora una volta i senatori romani si erano illusi che, con la morte di un Re, il potere sarebbe tornato nelle loro mani. Ma era un illusione perché il settimo Re di Roma governò la città con metodi tirannici, facendo gran uso della forza e della violenza.

Come narra Dione Cassio, i romani lo odiavano, tanto da chiamarlo con l’appellativo di Superbo; lui li aveva ridotti ad uno stato servile, tanto che le opere pubbliche venivano realizzate con il lavoro gratuito e obbligatorio degli stessi cittadini, sia essi patrizi o plebei. Fu così anche per l’imponente tempio di Giove, costruito sul Campidoglio con il contributo dei migliori artisti etruschi, dove il sommo Dio veniva associato alla moglie Giunone ed alla figlia Minerva.

Il regno di Tarquinio è costellato di episodi leggendari, mistici. Si racconta ad esempio che un giorno il Re incontrò una vecchia donna straniera, la quale offrì al sovrano nove libri ad un prezzo considerato molto alto. Al rifiuto del sovrano, la donna bruciò tre libri e offrì i sei rimanenti allo stesso prezzo. All’ennesimo rifiuto, la donna ripeté la stessa operazione ed offrì nuovamente, senza ritoccare il prezzo, i tre libri rimasti. A questo punto il Re si impressionò e consultò gli aùguri i quali consigliarono al sovrano di acquistare i libri superstiti, perché provenivano dalla Sibilla, la profetessa di Cuma, e contenevano preziosi consigli per governare Roma. Dopo l’acquisto, i tre libri, vennero custoditi nel tempio di Giove.

Il Re Superbo si impegnò in molte guerre al fine di espandere il territorio di Roma. Durante il suo regno Roma ingrandì notevolmente la sua area di influenza e le sue conquiste arrivarono addirittura nel cuore dell’Etruria alla quale sottrasse anche le colonie meridionali almeno fino a Gaeta.

Utilizzò qualsiasi mezzo per conquistare nuovi territori. Si racconta addirittura che, per sottomettere la città di Gabi, fece frustare il proprio figlio più piccolo: Sesto. Così malandato lo mandò in territorio nemico dove il ragazzo si dichiarò disertore maledicendo il proprio padre. Sesto conquistò la fiducia degli abitanti di Gabi, convinti a tal punto della sua buona fede da nominarlo comandante dell’esercito. Per rafforzare la posizione del giovane, il Superbo finse di perdere alcune battaglie. Padre e figlio continuavano a comunicare tramite alcuni messaggeri che portavano a Sesto le istruzioni del padre.

Un giorno Sesto chiese ad un messaggero di passargli il messaggio del padre, ma il messaggero non aveva niente da dire e riferì al ragazzo che durante il loro incontro, avvenuto in un campo di papaveri, Tarquinio non aveva proferito parola ma aveva speso tutto il tempo ad abbattere i papaveri più alti. Sesto comprese subito l’ordine ricevuto dal padre attraverso questo messaggio subliminale. Era venuto il momento di eliminare i più importanti personaggi di Gabi, quelli che governavano la città. E così anche la città di Gabi venne conquistata.

Sesto fu il protagonista dell’episodio che segnò la fine di Tarquinio il Superbo e soprattutto la fine della monarchia con il passaggio alla repubblica. Infatti durante l’assedio di Ardea, in un periodo di tregua, il giovane principe scommise con i suoi fratelli Tito ed Arunte e con il loro parente Collatino signore della cittadella etrusca di Collatia, sulla virtù delle loro mogli. Così tornati a Roma di sorpresa, trovarono le loro mogli che festeggiavano senza alcun riguardo. L’unica che si comportava da vera moglie era proprio la moglie di Collatino, la bella Lucrezia, sorpresa nella sua residenza di Collatia, mentre era impegnata nelle tipiche attività quotidiane.

L’episodio, unito alla bellezza della giovane, aveva però stimolato gli appetiti sessuali del giovane principe che con una scusa si trattenne nella casa di Collatino, invece di seguire gli altri sulla via che conduceva a Roma.

La notte successiva si intromise nella camera di Lucrezia e di fronte alla reazione della giovane, Sesto, la costrinse a sottomettersi a lui con un vile ricatto. Infatti se avesse rifiutato la sua proposta indecente, Sesto avrebbe ucciso sia lei che un suo servo e poi li avrebbe coricati insieme nudi nel letto. Avrebbe poi detto a tutti che i due erano amanti e che lui li aveva uccisi dopo averli sorpresi in quella situazione compromettente.

La donna dovette accettare, suo malgrado, la violenza di Sesto, ma il giorno dopo si presentò a Roma e si buttò tra le braccia di suo marito, Collatino, e di suo padre Spurio Lucrezio.

Raccontò loro il torbido episodio e per dimostrare la sua onestà prese un coltello e si uccise, dopo aver ottenuto dai suoi congiunti, la promessa che avrebbero fatto di tutto per vendicare il suo onore perduto.

Quell’episodio scatenò la ribellione dei romani nei confronti dei Tarquini, una ribellione che partì come una faida familiare, ma che si concluse come una vera e propria “rivoluzione”. La ribellione fu guidata dal padre e dal marito di Lucrezia a cui si aggiunse un giovane Lucio Tarquinio Bruto, nipote del re, che per evitare di rimanere vittima di qualche epurazione da parte della famiglia reale e per non essere coinvolto in qualche guerra, si era sempre comportato come un demente, guadagnandosi il nomignolo di Bruto. Fu proprio lui ad assumere il comando di questo moto popolare e, dopo aver arringato la folla nel Foro, si presentò nel campo di battaglia di Ardea e, sempre agitando il pugnale con il quale Lucrezia si era uccisa, spinse anche i soldati alla rivolta.

Del resto Bruto era un predestinato: durante la sua pubertà il re Tarquinio lo aveva inviato da un oracolo, insieme ai suoi cugini Tito ed Arunte, figli del re. L’oracolo aveva previsto che chi, tra di loro, avesse baciato per primo la madre, avrebbe avuto un grande futuro. Tornati a Roma, mentre i suoi cugini si erano affrettati a raggiungere la loro madre per contendersi il primo bacio, Bruto si era soffermato a baciare il suolo romano: la madre terra, genitrice di tutti gli uomini.

La ribellione si concluse con la cacciata dei Tarquini che si rifugiarono nell’etrusca Chiusi, governata dal lucomone Porsenna.

Correva l’anno 509 a.c. (il 244 “ad Urbe condita” e cioè dalla fondazione), a Roma finiva, per sempre, la monarchia e veniva instaurata la repubblica.

Tra i protagonisti di questa vicenda rivoluzionaria ci fu Collatino, che era il lucomone (principe etrusco) della cittadella fortificata di Collatia. Oggi questa fortificazione è ancora esistente e nei secoli ha assunto il nome di “Castello di Lunghezza”. Lunghezza si trova a ridosso della città di Roma, pochi chilometri al di fuori del raccordo anulare tra la Tiburtina e la Collatina, che deriva il suo nome proprio da Collatia. Dopo la morte di Lucrezia, Collatino, distrutto dal dolore, intitolò la cittadella proprio alla sua compianta moglie. Negli anni il nome di Lucrezia si è storpiato fino ad assumere la forma che è arrivata fino ai giorni nostri e cioè Lunghezza.