256.

LEONE XIII
Gioacchino Pecci

nato a Carpineto Romano il 2.III.1810

Eletto papa il 20.II
e consacrato il 3.III.1878
Morto il 20.VII.1903

Il conclave
Nella situazione generale dell'Europa fine Ottocento, un conclave non solleticava più come anni e secoli addietro le cancellerie degli Stati; l'Italia era una nazione europea, la Chiesa di Roma non esisteva come Stato e ne conseguiva un minor interesse da parte delle grandi potenze ad influire sull'elezione di un papa. L'esercizio del diritto di «veto» perse in definitiva molta dell'importanza che aveva avuta; piuttosto le varie nazioni si dettero da fare per ottenere dal governo italiano garanzie sulla piena libertà e sicurezza dello svolgimento del conclave che si aprì in Roma il 18 febbraio 1878. In effetti il ministro degli interni, Francesco Crispi, ne assicurò la tutela, provvedendo a trincerare piazza S. Pietro e le zone adiacenti con adeguate «forze armate»; non ci furono incidenti.

Il conclave registrò la partecipazione di 60 dei 64 cardinali componenti il Sacro Collegio ma durò molto poco, appena 36 ore. Al terzo scrutinio, il 20 febbraio 1878, fu eletto il cardinale Gioacchino Pecci; aveva avuto la meglio sul cardinal Bilio, che passava come l'autore del Sillabo, mentre l'eletto «era stato chiaramente all'opposizione durante il pontificato di Pio IX», come ricorda Giancarlo Zizola. «Aveva vissuto tutti quegli anni in esilio a Perugia, dove peraltro s'era costituito un piccolo Vaticano, frequentato da intellettuali ed artisti, dove scriveva lettere pastorali che erano proprio il contrario delle encicliche di papa Mastai, perché affrontava con spirito positivo i maggiori problemi del tempo»; era forse quel successore che Pio IX stesso si augurava da quando aveva capito che uno come lui era fuori dal mondo.

Vita
Vincenzo Gioacchino Pecci era nato a Carpineto Romano, presso Anagni, il 2 marzo 1810 da una famiglia di antica nobiltà; aveva studiato presso i Gesuiti a Viterbo; a 22 anni, nel 1832, aveva conseguito il dottorato in teologia nel Collegio Romano, ed era entrato nell'Accademia dei diplomatici pontifici. Ordinato sacerdote il 31 dicembre 1837, era stato legato a Benevento e Perugia.

Grande studioso di teologia, continua ad ampliare i suoi studi filosofici e umanistici. Poi nel '43, consacrato arcivescovo, è inviato come nunzio a Bruxelles, dove entra in contatto con la realtà belga - ma anche europea - da qualche tempo in fermento, con i rapporti tesi fra cattolici e liberali, ma che Pecci riesce a ben gestire. Ma non fa solo questo: si guarda attorno, segue quanto succede in Inghilterra, dove è nata la rivoluzione industriale, in Germania, dove sta per esplodere la protesta dei lavoratori ('48), e segue la Francia Repubblicana.

Nel frattempo diventa arcivescovo di Damietta. Ritornato a Perugia nel '47, è nominato cardinale nel '53; nel '59 vive le drammatiche giornate della insurrezione perugina, la repressione dei soldati pontifici, ed infine la sofferta annessione dell'Umbria al regno sabaudo. In merito alla questione politica e sociale non è un intransigente come il segretario di stato ANTONELLI, le sue posizioni differiscono da quelle di Pio IX (Enciclica delle usurpazioni) ma gli rimane accanto nel movimentato intero periodo dell'Unità, ancora di più quando nel '76 prende il posto dello stesso Antonelli. Ma l'anno dopo muore Pio IX e il 20 febbraio 1878 viene eletto pontefice proprio lui, all'età di 68 anni.

Nella decisione dei cardinali hanno pesato, probabilmente, l'età (68 anni) e il carattere mite del Cardinal Pecci: dopo un periodo turbolento, dopo un papa intransigente e di grande personalità quale era stato Pio IX, è il papa di transizione che ci vuole.
Gli elettori calcolarono male due volte: il pontificato di Leone sarà uno dei più lunghi dell'età contemporanea (morirà nel 1903 a 93 anni) ed inciderà profondamente sull'animo dei cattolici, e poiché l'Italia era fondamentalmente tutta cattolica; sull'intera società italiana.

Papa
Fu consacrato papa in S. Pietro il 3 marzo 1878 e assunse il nome di Leone XIII; anziché benedire il popolo dalla loggia esterna prospiciente la piazza, lo fece da quella sporgente nell'interno della basilica. E questo fu già polemica.

In effetti nei primi dieci anni del suo pontificato, Leone XIII nel rapporto con l'Italia non si allontana dalla linea di Pio IX; i cattolici devono mantenersi fedeli al «Non expedit», nel rifiuto della partecipazione alla vita pubblica. «Né eletti né elettori», è la formula che anima questa crociata tendente a propagandare agli occhi del mondo intero la condizione di una Santa Sede «prigioniera» di uno Stato italiano anti­clericale.

Due mesi dopo la sua elezione con l'enciclica Imperscrutabili Leone ribadisce il rifiuto di accettare la perdita del potere temporale: la chiu­sura verso l'Italia è totale. L'aggressione del 13 luglio 1881 al corteo funebre che da S. Pietro trasporta a S. Lorenzo le spoglie di Pio IX è il segno tangibile della «guerra fredda». Leone XIII scrive all'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe manifestando il desiderio di stabilirsi fuori d'Italia; teme che, se resterà a Roma sotto l'oppressione di un governo che più della legge delle guarentigie non sa proporgli, la situazione di stallo in cui vive il mondo cattolico non si sbloccherà. Ma ogni speranza va delusa; l'anno dopo nasce la Triplice e l'Austria si al­lea con l'Italia; saltano i progetti di fuga e Leone resta trincerato in Vaticano.

È il rifiuto anche di tutto ciò che determina l'anticlericalismo, è l'opposizione al naturalismo e al socialismo; la proposta è il ritorno alla pratica delle virtù cristiane. In uno Stato oppressore anche il po­vero ritroverà il conforto nella semplicità della pratica religiosa; nulla più della preghiera e della rassegnazione. È un programma elementa­re, che non va incontro alle aspettative degli intellettuali cattolici che con ansia attendevano la sua elezione; il dottissimo pontefice li accontenta solo aprendo agli studiosi gli archivi segreti della biblioteca Vaticana. È ben poco.

Ma dove è finito il cardinale «esiliato» a Perugia, l'anti-Pio IX, «il papa futuro» esaltato da Ruggero Bonghi come primo romano pontefice senza sovranità territoriale e che risplenderà nella sua grande po­testà spirituale? Non ha affermato egli stesso, poche ore dopo l'elezione: «Voglio fare una grande politica»? Non può essersi rimangiato tutto chiudendosi dietro una cortina di ferro.

E infatti, improvvisamente, nel 1887 comincia il disgelo, Leone XIII ritrova se stesso; nell'allocuzione del 27 maggio si auspica una rinnovata concordia tra l'Italia e la Santa Sede, da ottenersi creando condizioni «in cui il romano pontefice non sia soggetto al potere di chicchessia, e goda libertà piena e verace». Sembra l'apertura a nuove accantonate possibilità di trattative. In un discorso da Napoli gli risponde il Crispi che mira ad essere il rinnovatore dello Stato italiano; associa i «tre grandi nomi» di Dio, patria e re, programmando una sorta di «tregua di Dio».

È il delirio dell'abate benedettino di Montecassino, padre Tosti, che nell'opuscolo dal titolo profetico, La Conciliazione, prevede la prossi­ma pace religiosa: «Vedremo la sedia gestatoria portata sulle spalle di trenta milioni di italiani». Ma l'illusione dura poco; nel 1888 il sindaco di Roma, il duca Leopoldo Torlonia, si reca in forma ufficiale dal cardinal vicario per far pervenire al papa i rallegramenti per il cinquantesimo del suo sacerdozio; il giorno dopo viene sostituito. Il governo italiano non approva. Dall'altra parte l'opera conciliarista pubblicata anonima dal vescovo di Cremona, Bonomelli, Roma, l'Italia e lo realtà delle cose, viene messa all'Indice; il giorno di Pasqua del 1889 nella cattedrale della sua città il Bonomelli dichiara pubblicamente di esserne l'autore e chiede perdono al papa.

Il 1889 è effettivamente l'anno della crisi; il 9 giugno a Roma, come ricorda Armando Ravaglioli, «in Campo de' Fiori, dove Giordano Bruno era stato arso, venne inaugurata la sua statua, opera di Ettore Ferrari, nel tripudio di tutti i professanti il "libero pensiero"». Le urla programmatiche «Morte a Leone XIII!» e «Morte allo Spirito Santo!» si diffondono nelle maggiori piazze italiane e il papa viene impiccato in effigie.

Qualcosa non torna nelle impazienze conciliariste dei cattolici italiani che a Padova hanno costituito con Giuseppe Toniolo l’«Unione cattolica italiana per gli studi sociali»; del resto l'anticlericalismo appare netto e impenetrabile. Ma questa volta papa Pecci non si scoraggia e nell'opera ormai irreversibilmente intrapresa lo sostiene il segretario di Stato, cardinal Rampolla; la diplomazia vaticana, in crisi in Italia, cerca una soluzione all'estero e l'Europa diventa il campo d'azione del rinnovamento. Prima di tutto con la Germania; messo da parte lo scontro frontale con il Bismarck, si cerca il compromesso, e con la visita di Guglielmo II in Vaticano del 12 ottobre 1888 si chiude ufficialmente la battaglia del Kulturkampf. Le grandi nazioni di tutto il mondo apprezzeranno il talento diplomatico della Chiesa di Roma, che in due occasioni diventerà arbitra d'importanti contese internazionali; fra Spagna e Germania per le isole Caroline, fra Spagna e Stati Uniti per Cuba.

E anche gli intellettuali cattolici non disarmano; nelle province di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza e Padova si raccolgono firme per una petizione di «pacificazione» tra le parti. Nascono 26 giornali cattolici per un dialogo con la stampa laica. Leone XIII non li abbandona; col fermento che ormai percorre il mondo cattolico nel campo culturale, storico e teologico, egli si propone anzi di dare alla Chiesa una rigida unità organizzativa e formativa proprio per restituirle una rinnovata capacità di espansione e autorità che non sia limitata all'Italia, ma si estenda al mondo intero.

La Rerum Novarum

E il 15 maggio 1891 arriva la Rerum Novarum con le sue proposte sociali nell'invito agli uomini di governo ad osservare la legge morale della giustizia, evitando la guerra di classe, con un aiuto concreto ai meno abbienti, ai poveri e un dialogo di collaborazione tra padroni e operai. Era la prima presa di posizione della Chiesa cattolica di fronte ai problemi del mondo operaio; l'enciclica tendeva da un lato a colpire le classi liberali perlopiù anticlericali che dominavano la politica degli Stati europei, dall'altro a sottrarre le masse operaie alla crescente influenza socialista. Ma anche se l'enciclica ebbe un'enorme risonanza, arrivava in ritardo, sfondava una porta aperta; il socialismo si era già impadronito delle masse e il papa Pecci oltretutto parlava da aristocratico qual era.

Come ha notato Carlo Falconi, risultavano quanto mai angusti di conseguenza i limiti dell'enciclica, là dove il «capitalismo» non veniva neppure nominato e tanto meno condannato.

In realtà l'ideale a cui lo scritto si ispirava, secondo quanto ha rile­vato Guido Gerosa, «non era sociale e neppure evangelico: era il corporativismo dei comuni medievali di parte guelfa. Per spegnere la gran vampata del socialismo, Leone XIII non aveva di meglio che invocare un ritorno alla corporazione medievale»; ciononostante «un papa favorevole al diritto di sciopero, un papa che non si opponeva alla creazione del sindacato cattolico era un segno dei tempi: era già il ventesimo secolo».

E infatti prende subito corpo il fine di quel grande politico che si ri­vela in tal modo Leone XIII: il potere papale abbattuto dalle cannonate a porta Pia rinascerà attraverso l'organizzazione delle masse politiche cristiane. Per quanto dure e opinabili, appaiono calzanti a questo pro­posito le parole di Émile Zola, per il quale questo papa «è più intellet­tuale che sentimentale, di un orgoglio smisurato, avendo avuto fin dalla giovinezza l'ambizione suprema, mostrando dappertutto e in tutto una volontà unica, avendo raggiunto il trono pontificio: regnare, regnare comunque, regnare da padrone assoluto, onnipotente!». E il nuovo programma politico per poter regnare comincia a prender cor­po nelle numerose iniziative degli intellettuali cattolici.

Nel 1892 il primo segno viene da Genova con un congresso nazionale di studiosi cattolici di questioni sociali; Giuseppe Toniolo fonda la «Rivista internazionale di scienze sociali» e il fine è quello di «rifare con rigore scientifico e con spirito cattolico ciò che hanno fatto Marx, Engels e Loria». Nasce la FUCI e si costituisce l'Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici; nel 1898 Romolo Murri fonda a Roma un'altra rivista, «Cultura sociale», nella quale la missione cattolica di elevare le classi più umili si fa programma politico. Quanto concretamente esso potrà attuarsi lo dirà la storia del secolo che sta per nascere; è possibile che il pensiero sociale dei cattolici di questi anni abbia «un puro valore accademico», come ha osservato Antonio Gramsci, «elemento ideolo­gico oppiaceo, tendente a mantenere determinati stati d'animo di aspettazione passiva di tipo religioso, ma non come elemento di vita politica e storica direttamente attivo». È un fatto che il Partito popolare, ovvero la Democrazia cristiana o comunque essa si chiamerà, è già in embrione nei programmi di Murri: nel 1899 i giovani «democratici cristiani» stendono a Torino l'assetto politico di tutto il movimento.

In questo clima di ritrovato entusiasmo cattolico intorno alla figura del papa, Leone XIII può nuovamente indire il giubileo nel 1900, non più celebrato ormai da 75 anni, a parte quello a «porte chiuse» di Pio IX; un poeta socialista come Giovanni Pascoli esalta nei suoi Odi e Inni «La porta santa». Ma nella celebrazione inconsueta di un laico affiora il dubbio sull'effettiva funzione che il papa e la Chiesa possano ancora avere nel nuovo secolo:

Uomo, che quando fievole 
mormori, il mondo t'ode, 
pallido eroe, custode 
dell'alto atrio di Dio;

leva la man dall'opera,
o immortalmente stanco!
scingi il grembiul tuo bianco,
mite schiavo di Dio:

la Porta ancor vaneggi! 
Voglion ancor, le greggi 
meste, passar di là. 

O nostro primogenito, 
puro tra i bissi puri,
le pietre che tu muri
con la gracile mano

nel sepolcreto sembrano 
chiudere i tuoi fratelli
tutti; con tre suggelli,
tutto il genere umano.

Solo la bianca Morte
chiude cosi le porte,
che non riaprirà!

Oh! le tue mani tremano. 
Dove sarai tu,quando 
un secol nuovo, orando, 
toglierà le tre pietre? 
Il «controgiubileo» organizzato dalla massoneria il 20 settembre è il segno concreto di uno scontro ideologico tra il mondo anticlericale e quello cattolico, di fronte al quale resta lecito il «dubbio» pascoliano. La singolare manifestazione prevede la visita delle «quattro basiliche laiche»: il Pantheon, dove era stato sepolto Vittorio Emanuele II; il Gianicolo, dove era stato eretto il monumento a Garibaldi; porta Pia, simbolo del crollo del potere temporale pontificio; il Campidoglio con il monumento a Cola di Rienzo, ritrovato padre putativo di una Roma laica e anticlericale.

È un episodio tra i tanti del tempo, forse un po' più eclatante perché volutamente irriverente e smitizzante, e Pasquino a fine Anno Santo lascia scritto sulla sua statua un volemose bene in versi, che vale per buttare acqua sul fuoco:

Famo la pace, Padre Santo
quello che è stato è stato... qua la mano
e aringraziamo tutti quanti Iddio!
Ma papa Pecci si mostra di nuovo titubante; nell'enciclica Graves de communi re del 1901 riconosce il movimento democratico cristia­no, ma ne limita il raggio d'azione. Avverte peraltro che lo stesso nome «di democrazia cristiana suona male a molti tra i buoni, perché vi veggon sotto un che di ambiguo e pericoloso. Ne temono per più di una ragione: cioè perché credono che così si possa coprire un fine politico per portare al potere il popolo promovendo questa forma di go­verno invece di altre». È insomma un invito a restare nei ranghi del «corporativismo».

La Francia lo delude: vi si registra un ritorno di fiamma anticlericale e nel clima di tensione tra Chiesa e Stato, che ricorda i tempi napoleonici, si delinea il fallimento dell'universale spirito di cristianizzazione sociale. 

Anche l'Italia lo delude. Nel 1902 il nuovo primo ministro Zanardelli tenta d'introdurre il divorzio; il papa interviene disperata­mente, ma non bandisce nessuna crociata e riesce ugualmente a scongiurare l'attentato al sacramento del matrimonio.

Comunque Leone XIII sembra sotto certi aspetti sempre più diso­rientato nella crescita del movimento cattolico e da ultimo vorrebbe frenarlo; è un momento di meditazione tutta politica. Nell'ambizione di restituire al papato la sua suprema funzione temporale, insinuandosi nel contesto dei problemi economici e sociali dello Stato italiano, non si fida più della intellighencjia cattolica; si delinea da allora una frattura tra quanti restano nei ranghi della gerarchia e gli autonomi, che s'indirizzeranno verso il modernismo.

Finisce l'entusiasmo di Leone XIII e con esso la sua vita il 20 luglio 1903: sepolto temporaneamente in Vaticano, vent'anni dopo sarà tumulato in un grandioso mausoleo, opera di Giulio Padolini, in S. Giovanni in Laterano.

Encicliche di Leone XIII

 

APPROFONDIMENTO

C'era il dilemma dei cattolici (e di quasi tutti gli italiani): essere buoni fedeli o buoni cittadini? Lui rispose con la "Rerum Novarum".

Appena salito al soglio - con la responsabilità di risolvere il problema dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa - più che protestare su quanto ormai avvenuto, Leone, più possibilista, più realistico (non intende mettere in discussione l'unità italiana), con sempre più vigore inizia a denunciare non tanto l'ambigua contrapposizione politica in atto (ossia l'avvento del trasformismo) quanto e soprattutto i mali della nuova società in fermento.

Nella società stanno i liberali da una parte e i socialisti dall'altra, entrambi con le loro utopie: Leone vuole la presenza della Chiesa e dei cattolici dentro la società, e non da comparse. E delinea una concezione dello stato, della libertà e della "democrazia" (fu proprio Leone a usare per la prima volta le due parole "democrazia cristiana" , che poi in seguito furono utilizzate per creare il Partito), destinate a segnare profondamente la società italiana.

Leone non è l'incauto promotore di una nuova ideologia: il risveglio cattolico nel mondo c'è già stato, e ha percorso in Europa strade diverse da quelle indicate da Pio IX con le sue condanne.

Il vescovo tedesco VON KETTELER, contemporaneo di Marx e di Lasalle,  nel 1848, l'anno dei grandi sconvolgimenti europei e del Manifesto, aveva tenuto nella cattedrale di Magonza sei forti discorsi sulle "grandi questioni sociali contemporanee", discorsi che ebbero una vasta eco e una risonanza profonda. Ancora più audaci e più seguiti furono i discorsi che questo prete andò a fare in "prima linea" in mezzo agli operai del bacino industriale del Meno nel 1869 (alla vigilia di un altro sconvolgimento - quello prussiano), nei quali affermò la necessità per gli operai di associarsi se volevano ottenere maggiori diritti, quali la riduzione degli orari di lavoro, l'aumento dei salari, e il divieto dei lavori pesanti per donne e fanciulli. Erano le prime pietre miliari di un discorso sociale che raggiunse la grande assemblea dei vescovi riunita a Fulda. E furono proprio queste idee sociali a dar vita al partito cattolico tedesco di allora, il cosiddetto "Centro".

Anche in Inghilterra il mondo "cattolico" non era rimasto insensibile al diffondersi del problema sociale. Qui il personaggio illuminato ed attento fu il cardinale MANNING, un audace prete che non stava in sacrestia e non mandava messaggi pastorali, ma andava nelle fabbriche, nelle grandi miniere e nei porti, svolgendo un'accanita attività di difesa dei diritti del lavoro. Le sue idee allarmarono gli industriali e scandalizzarono i conservatori; lui fu accusato di fare del socialismo, ma ai nemici rispondeva sempre: "no cari signori, io faccio del cristianesimo".
Manning divenne così popolare e fu talmente forte il suo prestigio presso i lavoratori, che nell'agosto 1889  (due anni prima della Rerum di Leone XIII), durante il grande sciopero che paralizzò il porto di Londra, fu invocato da entrambi le parti come arbitro della vertenza, ed il suo intervento fu decisivo per giungere ad un accordo e far cessare lo sciopero (in quell'occasione nacque il sindacato dei minatori e il tradeunionismo si estese anche alle categorie meno qualificate e meno forti).

In Italia la "questione romana" è a un punto critico
Nello stesso mese, a Roma, Crispi dedicava a Giordano Bruno un monumento in Campo de' Fiori. Il terribile frate finito sul rogo trecento anni prima, è divenuto per laicisti, anticlericali e massoni il simbolo della libertà contro l'oscurantismo della Chiesa. Eppure Leone XIII è pontefice tollerante, mite, sensibile alla questione sociale: è il papa forse più incline a ricercare una soluzione tra i due poteri contrapposti - Chiesa e Stato - destinati a dover "convivere". In quel momento nessuno può pensare di poter cancellare nella coscienza collettiva del popolo italiano il significato del cattolicesimo, ma l’eredità risorgimentale è ancora viva e la proposta di Adriano Lemmi, gran maestro della massoneria, di erigere una statua a Giordano Bruno nel luogo dove era stato bruciato per eresia, entusiasma il frastagliata fronte anticlericale, il quale dimentica che in quel momento il problema più grosso era quello di "riuscire a convivere", e non di "dividere".

Il 23 maggio dell'anno prima, il Papa, dopo tante iniziative per trovare una soluzione alla "questione romana", con un atto significativo, nell'allocuzione Episcoporum, ha accennato alla possibilità di una conciliazione con l'Italia ed ha incaricato il benedettino Tosti di avviare i colloqui. Ma Crispi non intende nemmeno iniziarli, anzi, sull'anticlericalismo spinge l'acceleratore. La delusione di Leone è grande, fino al punto che circola la voce che il Papa voglia abbandonare Roma e rifugiarsi nella cattolica Austria. Francesco Giuseppe allarmato manda subito qualcuno a dissuaderlo (nella Triplice ci sono già tanti problemi e non vuole spingere l'Italia tra le braccia della Francia).

Leone XIII resta a Roma, e inizia a lavorare sulla sua Rerum novarum che uscirà il 15 maggio 1891.

Alla bella età di 80 anni Leone riesce ad immedesimarsi nella mentalità contemporanea, a capirne le necessità e le esigenze più vitali, ed intraprendere un'iniziativa vasta e ardita, facendosi interprete della grande ansia non solo dei cattolici in lunga attesa da trent'anni, ma dei figli più umili, cattolici o no; raccoglie le ardenti posizioni innovatrici di tanti sacerdoti e vescovi, ed interviene con una chiarezza inusitata per quei tempi.

Prendendo coscienza della condizione di crisi e di disagio morale, oltre che materiale ed economico, in cui le masse di lavoratori erano venute a trovarsi a seguito del vertiginoso sviluppo industriale, pone dei punti ben fermi: da una parte richiama gli imprenditori e i capitalisti alle loro responsabilità, rimproverando loro egoismo e il tenace attaccamento al denaro (*), dall'altra esorta le classi operaie a non lasciarsi suggestionare da facili ideologie rivoluzionarie e a non irrigidirsi in una sterile lotta di classe. Fa appello ad uno spirito di collaborazione tra le varie classi che devono insieme puntare a raggiungere uno stato di benessere, che sia il benessere di tutti e non di pochi a svantaggio di molti: l'obiettivo indicato è quello di realizzare la solidarietà di capitale e lavoro, proprio perché Leone XIII ritiene assurdo l'antagonismo tra le due forze, che soltanto unite e concordi possono progredire.
(*) A costoro, ancora nell'89, parlando a diecimila operai francesi giunti a Roma in pellegrinaggio, aveva detto - ma era implicito parlava a nuora perché suocera intendesse - :  "A chi tiene il potere spetta soprattutto persuadersi di questa verità: che per rimuovere il pericolo da quella minaccia che potrebbe venire dal basso, né le repressioni, né le armi dei soldati saranno sufficienti" 
(aveva antiveduto la Rivoluzione Russa con 17 anni di anticipo).

L'enciclica ebbe un successo strepitoso e suscitò ovunque l'interessata ammirazione di chi sentiva che veniva finalmente offerta la possibilità di giungere alla soluzione di tanti problemi; le masse lavoratrici si resero conto che avevano ormai trovato nella Chiesa una potente e disinteressata alleata e nel Papa un difensore strenuo dei loro diritti troppe volte ingiustamente calpestati.

Inutile dire che anche nel campo liberale moderato suscitò commenti favorevoli; quelle parole erano rimedi spirituali e civili e in un certo senso stemperavano gli animi. Nella coscienza collettiva il cattolicesimo c'era, inutile cercare di non prenderne atto (anche Napoleone dovette ricredersi, sbarazzandosi di quella pagliacciata che era stata creata; il "culto della ragione", il "culto trinitario di Marat, Chaliere Lepeletier", le "vestali della repubblica", le "sacerdotesse della ragione")

I contenuti dell'enciclica sanzionavano le tendenze già espresse da vari gruppi e movimenti e diede un vigoroso impulso allo sviluppo del cattolicesimo sociale e delle nuove tendenze di "democrazia cristiana", indicando alcuni principi: la funzione sociale della proprietà; il compito dello stato di promuovere la prosperità pubblica e privata quando l'iniziativa dei privati non basti; (qui Leone anticipa di trent'anni Keynes e il suo assistenzialismo americano del dopo '29); il valore umano del lavoro che non può essere considerato come una semplice merce; la condanna della lotta di classe, ma al tempo stesso il diritto degli operai di associarsi per la tutela dei loro diritti.
L'enciclica fu definita dai cattolici la "Magna Carta del Lavoro".

Già il 1° settembre 1891, a Vicenza, a i partecipanti al Congresso dei cattolici, NICOLO' REZZARA  illustra una struttura di iniziative pratiche per soccorrere le classi povere. Elenca 284 società cattoliche di mutuo soccorso (daranno vita a banche - casse rurali di risparmio (la famosa Banca Cattolica del Veneto, Antoniana ecc.); a patronati, a cooperative agricole a ad altre numerose iniziative). I convenuti propongono persino un sistema singolare agli operai: la sostituzione del salario con la partecipazione agli utili nelle industrie e un sistema di contratti-colonia in agricoltura.
Sono iniziative che inaspriscono il conflitto con lo Stato italiano, preoccupato che la Chiesa possa inquadrare i lavoratori con l'obiettivo di uno stato confessionale.

Tutta l'Italia era ormai animata da numerosi congressi, fondazioni di partiti, movimenti: di anarchici, del Partito dei lavoratori, dei clericomoderati della corrente cattolica transigente, della lega socialista milanese di Turati, di Ferri, Labriola, di repubblicani e radicali. Intanto le questioni economiche e sociali  nel paese stavano esplodendo dai banchi del Parlamento (da tempo non più a contatto con la realtà) fino all'ultimo villaggio della penisola. Ma soprattutto nelle grandi città. Già in febbraio erano iniziate dimostrazioni di protesta, legate alla forte disoccupazione, ai bassi salari, agli aumenti del costo della vita e soprattutto si contestarono gli alti costi della guerra coloniale. I primi incidenti iniziano a Bologna,  proseguono a Roma,  per poi estendersi nei successivi due mesi in altre città; poi  a maggio ancora a Roma  con scontri fra operai e forza pubblica e con centinaia di arresti. L'ordine del governo è "repressione" e ancora "repressione". Crispi non perdona, perseguita, fa le liste di prescrizione, togli il diritto di voto agli avversari, ecc. ecc.

In questo clima esce il 15 maggio la Rerum novarum, una sfida alle armi con la penna. 

In seguito il papa protesta anche contro l'oppressione nei confronti dei movimenti cattolici, le organizzazioni dei quali, al pari di quelle socialiste, sono colpite dalla repressione crispina, che fa chiudere migliaia di patronati, enti religiosi, associazioni.

Il 5 maggio del 1898, quando era ancora fresca di stampa la sua protesta, in Italia il giorno dopo il 6-9 maggio esplode un'ondata di violenti tumulti sul caropane e sullo stato di miseria della popolazione. Disordini e protesta sociale a Milano diventa una tragedia quando, mobilitato dal governo, un corpo d'armata al comando di Bava Beccaris con pieni poteri nella repressione, spara cannonate sulla folla. E' un eccidio! 80 morti e 300 feriti. Lo stato d'assedio viene esteso a Napoli, in Toscana, a Como.
Beccaris verrà insignito della gran croce dell'Ordine militare di Savoia; è Re Umberto ad appuntargliela sul petto, per il "servizio reso alle istituzioni e alla civiltà". Un anarchico Gaetano Bresci, indignato, nel 1900, partirà da New Jersey, per appuntare sul petto di Re Umberto, ben altra medaglia di "civiltà": gli scaricherà la sua pistola addosso. 

Da Leone arrivano altre indignate proteste e indignazione, e profonde amarezze; ma Leone XIII ha ormai 88 anni, è vecchio e malato e non riuscirà a compiere l'opera così arditamente iniziata; con l'avvento alla carica di Segretario di Stato del cardinale RAMPOLLA e, poco dopo, al soglio pontificio di Pio X, per l'intransigenza dei due, i conflitti invece di appianarsi si faranno ancora più aspri.

Ma ormai Leone XIII  ha fatto maturare una situazione nuova e i nuovi rapporti tra Chiesa e Stato sono imprescindibili (dapprima con Giolitti, poi con l'eretico - così si firmava in gioventù - Mussolini).

Pur avendo Leone emanata nel 1901 l'enciclica  Graves de communi, con la quale vietava di dare un carattere politico al partito dei cattolici (la nascente Democrazia Cristiana),  Murri e Don Sturzo proseguirono ancora più arditamente. I due, attaccando gli intransigenti, sostenevano che i cattolici si dovevano impegnare concretamente nella difesa delle libertà fondamentali e dei ceti popolari "anche appoggiando alcune battaglie dell'estrema sinistra". A schierarsi con i due preti ribelli è l'Opera dei Congressi, subito osteggiata dal Vaticano e nel successivo anno 1904 fatta sciogliere da Pio X.
Il dissidio tra i cattolici intransigenti e i democratici diventa incolmabile. Qui si forma qui l'ala sinistra del mondo cattolico, che solo in seguito diventerà ufficiale, e che avrà un ruolo importante nella nascita del Partito Popolare (1919) di Don Sturzo e nella definitiva abolizione del non expedit in occasione delle elezioni dello stesso anno. Con il 20,6% dei voti, il PPI entrerà in Parlamento con 100 deputati e sarà quindi il principale interlocutore del governo.

Secondo un rapporto dell' UNDP (ONU)  il 20% dei ricchi del mondo che nel 1960 possedevano il 70% delle ricchezze mondiale sono arrivati ad averne l'83%. Al contrario il 20% dei poveri che negli anni sessanta possedevano il 2% delle ricchezze mondiali sono passati ora all'1,4%.
 In altre parole la concentrazione della ricchezza può essere espressa dal fatto che 358 ipermiliardari detengono il 45% della ricchezza mondiale.
Le parole dello scrittore francese Georges Bernanos conservano tutta la loro drammatica attualità:
«Nel momento in cui parlo, la peggiore disgrazia del mondo è che non è stato mai tanto difficile distinguere tra i costruttori e i distruttori, perché mai prima d'ora la barbarie ha disposto di mezzi più potenti per abusare delle delusioni e delle speranze di un'umanità, la quale dubita di se stessa e del proprio avvenire».

Mary Robinson, alto commissario dell'Onu per i Diritti Umani, ha dichiarato nel celebrare l'anniversario della Dichiarazione: «Non è un anniversario da celebrare. Ci sono nel mondo così gravi violazioni dei diritti umani che dobbiamo piuttosto assumerci la nostra responsabilità».