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Questa è una tipica cronaca medievale, redatta da un autore molto probabilmente di Roma o dintorni, identificato di recente nella persona di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone.
Narra di vari fatti storici, dall'apparizione di una cometa nel 1337 all'incoronazione di Carlo IV di Boemia come imperatore del Sacro Romano Impero nel 1355; gli anni, frequentemente riportati nel testo, consentono una precisa datazione anche della stessa cronaca.
Purtroppo otto capitoli degli originali ventotto sono andati perduti, ma si sono conservati oltre 2/3 del lavoro originale.
La Cronica è anche nota come Vita di Cola di Rienzo perché la seconda metà del testo riguarda la biografia del tribuno di Roma; il capitolo più lungo, il XVIII, è completamente dedicato a lui, ma viene citato anche nei capitoli successivi.
Ma il suo governo ben presto si trasformò in una sanguinosa dittatura. Un po' alla volta perse il sostegno della gente, e venne accusato di eresia dal papa. A dicembre, sotto l'attacco di uno dei molti nobili, abdicò e lasciò Roma.
Cola di Rienzo in un'incisione Nato da famiglia modesta, figlio di un taverniere e di una lavandaia, Cola (Nicola) divenne uno stimato uomo di lettere; mosso dalle sue idee visionarie di una restaurazione delle antiche glorie cittadine, divenne famoso fra la gente del popolo, a cui teneva discorsi contro la corruzione del governo e contro le ingiustizie sociali.
Il 20 maggio 1347 guidò una rivolta, e mise in fuga i senatori, proclamandosi tribuno del popolo ed emanando una nuova costituzione. Riscuotendo i favori dei governi delle altre città, e quelli di poeti quali Petrarca, il potere di Cola inizialmente si rafforzò; ciò gli permise di respingere il tentativo dei nobili di riprendersi il comando sulla città.
Nel 1350 tentò di ottenere l'aiuto del re Carlo IV di Boemia, dichiarandosi figlio illegittimo di un suo avo, e giustificando la rivolta che progettava con i suoi sogni profetici, ma il re lo fece rinchiudere nelle sue prigioni. Due anni dopo fu ceduto al papa, ad Avignone, dove fu processato di nuovo; ma i giudici ne ebbero pietà e lo rilasciarono. Divenne un prezioso alleato del papato, e nel 1354 tornò trionfalmente a Roma, dove venne nuovamente acclamato, al punto di riconquistare il titolo di tribuno per la seconda volta. Ma di nuovo il suo bizzarro e dissennato modo di governare la città portò presto alla necessità di imporre pesanti tasse, e ancora una volta la popolazione si ribellò. L'8 ottobre 1354 scoppiò la rivolta finale, e la gente circondò il municipio sul Campidoglio. Cola tentò di travestirsi, annerendosi il volto e indossando abiti plebei. Ma dimenticò di togliersi i braccialetti d'oro, e fu così riconosciuto e catturato. Nella stessa piazza, davanti ad una folla in tumulto, fu ucciso. Il suo cadavere fu trascinato e lasciato esposto per alcuni giorni, finché venne dato alle fiamme.
Questi eventi sono narrati nel Capitolo XXVII con una ricchezza di dettagli che solo un testimone oculare avrebbe potuto conoscere.
Il linguaggio usato nel testo non si discosta molto da quello di Le miracole de Roma (cfr. GLI ANTENATI DEL DIALETTO ROMANESCO - I). Possiamo pensare che chiunque scrivesse guide e cronache, persone di cultura elevata se si considera la grande maggioranza di analfabeti, quindi verosimilmente a conoscenza dei pochi lavori già scritti in volgare, avrebbe probabilmente usato un linguaggio "standardizzato", cioè simile a quello letto nei testi già esistenti. Non dobbiamo dimenticare, però, che questo volgare non era neppure ufficialmente una lingua, ma si limitava a riflettere l'idioma della quotidianità, mentre era ancora il latino quello usato per la maggior parte dei testi scritti.
Dobbiamo ancora una volta osservare che è troppo presto per poter dare a questo testo l'etichetta di "dialetto". Certamente riflette molti aspetti del linguaggio parlato sul posto, così come vi si riconoscono ancora diverse reminiscenze latine (infatti alcune espressioni sono effettivamente in latino, così come vengono anche citati classici latini, e ciò è una prova dell'elevato livello culturale dell'autore).
La seguente tabella mostra qualche evidente esempio di come questo volgare si sarebbe trasformato nel dialetto romanesco:
| VOLGARE (XIV sec.)
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ROMANESCO
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ITALIANO
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|---|---|---|
| volenno | volenno | volendo |
| essenno | essenno | essendo |
| fonnavano | fonnaveno | fondavano |
| Lommardia | Lommardia | Lombardia |
| calla | calla | calda |
| lassa | lassa | lascia |
| iva | iva o annava | andava |
| sonata | sonata | suonata |
| perzone | perzone | persone |
| se pozza | se pòzza | si possa |
| penzao | penzò | pensò |
| Pavolo | Pavolo o Paolo | Paolo |
| de fòra | de fòra | di fuori |
| robba | robba | roba |
Si trovano anche similitudini col dialetto napoletano (e quindi con la lingua spagnola), soprattutto nella trasformazione in dittongo di alcune vocali (cosiddetta metafonesi) come in grieco (greco), tiempo (tempo), muodo (modo), ecc, e nel cambio della B con la V come in vastone (bastone), vraccia (braccia), ecc.; tale influsso si diluì nel XVI secolo, quando con l'ascesa al papato della famiglia Medici molti fiorentini trasferitisi a Roma diedero vita ad una numerosa comunità, con un ovvio impatto sull'idioma locale. Ma ancora in Berneri (fine XVII secolo) le tracce partenopee sono consistenti.
Per ragioni di praticità vengono mostrati solo brani di alcuni capitoli.
Le parentesi quadre [. . .] indicano parti andate perdute, quelle tonde (. . .) indicano parti omesse.
Per l'edizione integrale della CRONICA (senza versione in italiano) clicca QUI.
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dove se demostra le rascione per le quale questa opera fatta fu. Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. 'Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria [...] tristezze, disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali insassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora triomfali in soli[i]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in Arimino. Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e·lli fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mannifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma. (. . .) |
in cui si espongono i motivi per cui fu scritta quest'opera. Sostiene il glorioso dottore messer sant'Isidoro, nel libro delle Etimologie, che il primo uomo di Grecia a disporre della scrittura fu un greco il cui nome era Cadmo. Prima del suo tempo non vi era scrittura. Dunque, quando vi era necessità di tramandare qualcosa nel tempo, non si poteva scrivere. Quindi le commemorazioni si facevano con sculture di pietra ed epitaffii, che si collocavano nei luoghi famosi dove abitava molta gente, oppure si collocavano là dove erano state compiute le gesta: ad esempio una grande battaglia, oppure vittoria [...] tristezze, sconfitte scolpivano [...] e aitri animali di pietra oppure gente armata, come segno di tale commemorazione. E fondavano queste pietre in quei luoghi dove le cose erano avvenute, in segno di perpetua memoria. Non ne scrivevano libri, in quanto presso i Greci non vi era la scrittura. E tale tecnica fu mantenuta dai Romani in tutta l'Italia e in Francia, e soprattutto a Roma; in quanto facendo conoscere ai loro successori [...] i loro fatti, vi eressero archi trionfali in segno di potere con battaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, come se ne trovano adesso in Persia e a Rimini. Da quando Cadmo cominciò a disporre della scrittura, la gente cominciò a scrivere le cose e i loro fatti a beneficio della debolezza di memoria, e soprattutto i fatti principali e magnifici: come Tito Livio scrisse il libro della fondazione di Roma fino al tempo di Ottaviano, come Lucano scrisse dei fatti dei Cesari, Sallustio e molti altri scrittori non lasciarono perire la memoria di molte cose del passato di Roma. (. . .) | |
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Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione de missore Mastino tiranno per li Veneziani. Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una [...] fatta nella sovrana parte de l'airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti. In bona fe', ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. (. . .) |
La cometa che apparve nella regione di Lombardia e della caduta di messer Mastino tiranno dei Veneziani. Correva l'anno del Signore 1337, del mese di agosto, e
apparve nella regione di Lombardia una cometa moito splendente e bella, e
durò tre giorni. Poi sparì nell'atmosfera. Questa cometa sembrava essere
una stella assai più lucente delle altre, e distendeva dietro di sé una
chioma distinta, appuntita come una spada, e la punta pendeva sopra
Verona. Questa chioma stava su uno dei lati. Non andava né in sù né in
giù, ma si stendeva diritta come fosse una fiamma di fuoco. Ciò che questa
novità voleva significare catturò molto l'attenzione della gente. Dice
Aristotele, nella Meteora, che questa non è una stella vera; è anche una
[...] fatta nella parte più alta dell'atmosfera, e si fa di materia umida
e calda, che sale in alto e arde e dura tanto quanto la materia di cui è
costituita. Dice anche che questa non appare mai se non per segnalare
grandi novità, soprattutto riguardo ai governanti della terra, e
sconvolgimenti di nazioni e morte e caduta dei potenti. Fu davvero così;
poiché, appena questa scomparve, per la Lombardia si sparse la notizia che
Padova era perduta. (. . .) | |
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Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi. Po' questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno moito umido, moito piovoso. Abunnaro moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta neve, che esmesuratamente coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo granne peso che·lla neve faceva. Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra de casa a fare sio mestieri e procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che fuoro seminati fuoro perduti, perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se potevano procurare. Donne sequitao sterilitate e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì orribile che forte cosa pare a contare, a credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma XXI libre de provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure perzone, 'nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona fe', questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo pane. Fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne era la pecunia che se numerava per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l'erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva. (. . .) ![]() |
Dell'aspra e crudele carestia, della battaglia di Parabianco in Lombardia e dei nuovi modi di vestire. In seguito a questa cometa, della quale si è detto sopra, fu un anno molto umido, molto piovoso. Abbondarono le malattie reumatiche in gran quantità, e molti catarri fra la gente. E per tre inverni vi fu tanta neve da ricoprire le città in modo smisurato. Molte case, molti tetti a Bologna caddero per il grande peso che la neve vi esercitava. Anche le estati erano umide, al punto che gli uomini non potevano uscir fuori di casa a fare il proprio lavoro e a procacciarsi il necessario. I campi non furono lavorati. Il grano e ogni legume che era stato seminato andarono perduti, in quanto affogavano per l'eccesso di umidità, e non si potevano procurare. Donde ne seguì la sterilità [dei terreni] e cattivo raccolto. E a causa di quel cattivo raccolto persistette una così orribile carestia che è cosa difficile da raccontare e da credere. Questa carestia si ebbe ovunque nel mondo. A Roma il grano fu venduto a 21 libbre di provesini il rubbio (circa 200 kg). Correva l'anno del Signore 1338. Scrive Tito Livio che nel passato si ebbe una carestia nella contrada di Roma, così terribile che molta gente, numerose persone, la vita preferivano perderla piuttosto che continuare a vivere affamati. Le donne si avvolgevano il cappuccio davanti agli occhi per non assistere alla propria morte, e si gettavano nel fiume Tevere, e là morivano affogate, e morendo ponevano rimedio alla fame. Ad essere onesti, io non vidi avvenire questo a quei tempi. Ma vi furono infinite donne che rinunciarono al proprio onore per avere del pane. Molta gente vendette le proprie franchige [privilegi dinastici] per il pane. Furono venduti palazzi, possedimenti di campi e vigne, e dati via a prezzi irrisori, per avere del pane. Erano grandi le quantità di denaro che occorrevano per avere un po' di provviste. Molta gente mangiava i cavoli cotti senza pane. La povera gente mangiava i cardi cotti col sale e le erbe dei maiali. Tagliavano la gramigna e le piccole radici dei cardi marini, le cuocevano con la mentuccia e le mangiavano. Andavano anche per i campi mendicando le rape, e le mangiavano. Vi fu anche un certo padre che ogni giorno a ciascuno dei figli dava da mangiare una rapa come se fosse stata pane. (. . .) | |
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Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto. Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu
tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse
de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio
avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla
Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa
ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore
rettorico, autorista buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Moito
usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le
magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli
intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso,
che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche
vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como
spesso diceva: "Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa
iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!" Era bello omo e
in soa vocca sempre riso appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu
notaro. Accadde che un sio frate fu occiso e non fu fatta vennetta de sia
morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sio
frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio
procaccio gìo in Avignone per imbasciatore a papa Chimento de parte delli
tredici Buoni Uomini de Roma. La soa diceria fu sì avanzarana e bella che
sùbito abbe 'namorato papa Chimento. Moito mira papa Chimento lo bello
stile della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se destenne
Cola e dice ca·lli baroni de Roma so' derobatori de strade: essi consiento
li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro
citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contra li potienti. Puoi, a
petizione de missore Ianni della Colonna cardinale, venne in tanta
desgrazia, in tanta povertate, in tanta infirmitate, che poca defferenzia
era de ire allo spidale. Con sio iuppariello aduosso stava allo sole como
biscia. Chi lo puse in basso, quello lo aizao: missore Ianni della Colonna
lo remise denanti allo papa. Tornao in grazia, fu fatto notaro della
Cammora de Roma, abbe grazia e beneficia assai. A Roma tornao moito
alegro; fra li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a
usare sio offizio cortesemente; e bene vedeva e conosceva le robbarie
delli cani de Campituoglio, la crudelitate e la iniustizia delli potienti.
Vedeva pericolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino
che·llo volessi aiutare. Imperciò se levao in pede una fiata nello
assettamento de Roma, dove staievano tutti li consiglieri, e disse: "Non
site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo sangue della povera iente e
non la volete aiutare". Puoi ammonìo li officiali e·lli rettori che
devessino provedere allo buono stato della loro romana citate. (. . .) |
Le grandi imprese che fece Cola di Rienzo, che fu augusto tribuno di Roma. Cola di Rienzo fu di basso lignaggio. Il padre era
taverniere, ed aveva nome Rienzi. La madre si chiamava Maddalena, e viveva
del mestiere di lavandaia e portatrice d'acqua. Nacque nel rione della
Regola. La sua abitazione era accanto al fiume, fra i lavoratori dei
mulini, nella strada che va verso Regola, dietro a San Tommaso, sotto il
tempio degli Ebrei. In gioventù si nutrì col latte dell'eloquenza, buon
grammatico, migliore retorico, buon autore. Oh, come e quanto era veloce
come lettore! Leggeva molto Tito Livio, Seneca e Tullio e Valerio Massimo.
Amava molto raccontare le magnificenze di Giulio Cesare. Per tutto il
giorno si specchiava nei rilievi marmorei che giacciono intorno a Roma.
Non vi era che lui in grado di leggere gli antichi epitaffi. Traduceva in
volgare tutti i testi antichi. Interpretava in modo corretto queste figure
di marmo. Oh, come diceva spesso: "Dove sono questi buoni Romani? Dov'è la
loro somma giustizia? Se potessi trovarmi ai tempi in cui vissero
costoro!". Era un bell'uomo, e sulla sua bocca appariva sempre un riso
fantastico. Costui fu notaio. Accadde che un suo fratello fu ucciso, e la
sua morte non fu vendicata. Non lo poté aiutare. Meditò a lungo di
vendicare il sangue di suo fratello. Meditò lungamente di rendere retta la
citta di Roma mal governata. Per proprio lavoro andò ad Avignone come
ambasciatore di papa Clemente VI da parte dei tredici Buoni Uomini
(governatori) di Roma. Il suo eloquio fu di tale
levatura e così bello che entrò subito nelle grazie di papa Clemente. Il
papa ammira molto il bello stile della lingua di Cola. Lo vuole incontrare
ogni giorno. Allora Cola, aprendosi, dice che i baroni di Roma sono ladri
di strada: essi consentono gli omicidi, le ruberie, gli adulteri, ogni
male; essi vogliono che la loro città giaccia desolata. Convinse molto il
papa contro i potenti. Poi, su richiesta del cardinale messer Giovanni
della Colonna, cadde in grande disgrazia, in grande povertà, in grande
malattia, che poco mancava finisse all'ospedale. Col suo giacchetto
addosso stava al sole, come una biscia. Chi lo fece decadere, lo fece
anche risorgere: messer Gianni della Colonna lo riabilitò davanti al papa.
Tornò in grazia, fu fatto notaio della Camera di Roma, ebbe fortuna e
molti benefici. A Roma tornò con lo spirito alto; minacciava fra i denti.
Essendo tornato a corte, cominciò ad usare la sua posizione con spirito
nobile; e bene vedeva e conosceva le ruberie dei cani di Campidoglio, la
crudeltà e l'ingiustizia dei potenti. Vedeva il Comune in grande pericolo,
e non si trovava un buon cittadino che lo volesse aiutare. Quindi una
volta si alzò in piedi nell'assemblea di Roma, dove stavano tutti i
consiglieri, e disse: "Non siete buoni cittadini, voi che succhiate il
sangue alla povera gente e non la volete aiutare". Poi ammonì gli
ufficiali e i rettori a voler provvedere al buono stato della loro città
di Roma. (. . .) | |
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Como missore Nicola de Rienzi tornao in Roma e reassonse lo dominio con moite alegrezze e como fu occiso per lo puopolo de Roma crudamente. Currevano anni Domini MCCCLIII[I], lo primo dìe de
agosto, quanno Cola de Rienzi tornao a Roma e fu receputo
solennissimamente. Alla fine a voce de puopolo fu occiso. La novella fu
per questa via. Puoi che Cola de Rienzi cadde dallo sio dominio, deliverao
de partirese e ire denanti allo papa. 'Nanti la soa partita fece pegnere
nello muro de Santa Maria Matalena, in piazza de Castiello, uno agnilo
armato coll'arme de Roma, lo quale teneva in mano una croce. Su la croce
staieva una palommella. Li piedi teneva questo agnilo sopra lo aspido e lo
vasalischio, sopra lo lione e sopra lo dragone. Pento che fu, li valordi
de Roma li iettaro sopra lo loto per destrazio. Una sera venne Cola de
Rienzi secretamente desconosciuto per vedere la figura 'nanti soa
partenza. Viddela e conubbe che poco l'avevano onorata li valordi. Allora
ordinao che una lampana li ardessi denanti uno anno. De notte se partìo e
gìo luongo tiempo venale. Anni fuoro sette. Iva forte devisato per paura
delli potienti de Roma. Gìo como fraticiello iacenno per le montagne de
Maiella con romiti e perzone de penitenza. Alla fine se abiao in Boemia
allo imperatore Carlo, della cui venuta se dicerao, e trovaolo in una
citate la quale se appella Praga. Là, denanti alla maiestate imperiale,
inninocchiato parlao prontamente. Queste fuoro soie paravole e sio
loculento sermone denanti a Carlo re de Boemia, nepote de Enrico
imperatore, novellamente elietto imperatore per lo papa: "Serenissimo
principe, allo quale è conceduta la gloria de tutto lo munno, io so'
quello Cola allo quale Dio deo grazia de potere governare in pace,
iustizia, libertate Roma e·llo destretto. Abbi la obedienzia della
Toscana, Campagna e Maretima. Refrenai le arroganzie delli potienti e
purgai moite cose inique. Verme so', omo fraile, pianta como l'aitri.
Portava in mano lo vastone de fierro, lo quale per mea umilitate
convertiei in vastone de leno, imperciò Dio me hao voluto castigare. Li
potienti me persequitano, cercano l'anima mea. Per la invidia, per la
supervia me haco cacciato de mio dominio. Non voco essere puniti. De
vostro lenaio so', figlio vastardo de Enrico imperatore lo prode. A voi
confugo. Alle ale vostre recurro, sotto alla cui ombra e scudo omo deo
essere salvo. Credome essere salvato. Credo che me defennerete. Non me
lassarete perire in mano de tiranni, non me lassarete affocare nello laco
della iniustizia. E ciò è verisimile, ca imperatore site. Vostra spada deo
limare li tiranni. Vedi la profezia de frate Agnilo de Mente de Cielo
nelle montagne de Maiella. Disse che l'aquila occiderao li cornacchioni".
(. . .) Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: "Suso, suso a gliu tradetore!" Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso allo palazzo. Passava la uitima porta, uno se·lli affece denanti e sì·llo reaffigurao, deoli de mano e disse: "Non ire. Dove vai tu?" Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo. Allora, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de·llà e de cà. Allora Cecco dello Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne·sse iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani. (. . .) ![]() statua di Cola di Rienzo sul Campidoglio |
Come messer Nicola de Rienzo tornò a Roma e riassunse il potere con molti festeggiamenti, e come il popolo di Roma spietatamente lo uccise. Correva l'anno del Signore 1354, il primo giorno
d'agosto, quando Cola di Rienzo tornò a Roma e fu ricevuto in modo assai
solenne. Alla fine, a furor di popolo fu ucciso. La storia andò così. Dopo
che Cola di Rienzo decadde dal suo dominio, decise di partire e andare
davanti al papa. Prima della sua partenza fece dipingere sul muro di Santa
Maria Maddalena, in piazza di Castello, un angelo armato con l'insegne di
Roma, il quale teneva in mano una croce. Sulla croce stava una colomba.
Quest'angelo teneva i piedi sul serpente e sul basilisco, sul leone e sul
drago. Una volta dipinto, i balordi di Roma vi gettarono sopra il fango
per sfregio. Una sera Cola di Rienzo venne segretamente senza farsi
riconoscere per vedere l'immagine prima della sua partenza. La guardò, e
si accorse che i balordi l'avevano onorata poco. Allora ordinò che una
lampada vi ardesse davanti per un anno. Partì di notte, e se ne andò per
un lungo tempo. Furono sette anni. Si muoveva molto di nascosto per paura
dei potenti di Roma. Andò in giro come un fraticello, dormendo per le
montagne della Maiella con eremiti e penitenti. Alla fine si diresse in
Boemia, dall'imperatore Carlo, della cui venuta verrà detto, e lo trovò in
una città che si chiama Praga. Là, davanti alla maestà imperiale,
inginocchiato parlò prontamente. Queste furono le sue parole e il suo
autorevole discorso davanti a Carlo re di Boemia, nipote dell'imperatore
Enrico, recentemente eletto imperatore dal papa: "Serenissimo principe, al
quale è concessa la gloria dell'intero mondo, io sono quel Cola a cui Dio
concesse la grazia di poter governare in pace, giustizia e libertà Roma e
il suo distretto. Ebbi l'obbedienzia della Toscana, Campagna e Maretima.
Raffrenai l'arroganza dei potenti e corressi moite cose inique. Sono un
verme, un uomo fragile, una pianta come gli altri. Portavo in mano il
bastone di ferro, che per mia umiltà convertii in bastone di legno, per
questo Dio mi ha voluto castigare. I potenti mi perseguitano, cercano la
mia anima. Per l'invidia, per la superbia mi hanno cacciato dal mio
dominio. Non vogliono essere puniti. Io sono del vostro lignaggio, figlio
bastardo di Enrico imperatore il prode. Presso voi mi rifugio. Alle vostre
ali ricorro, sotto la cui ombra e scudo un uomo dev'essere salvo. Credo di
essermi salvato. Credo che mi difenderete. Non mi lascerete perire in mano
dei tiranni, non mi lascerete affogare nel lago dell'ingiustizia. E ciò è
la verità, perché siete imperatore. La vostra spada deve far giustizia dei
tiranni. Vidi la profezia di frate Angelo di Mente del Cielo nelle
montagne della Maiella. Disse che l'aquila ucciderà le cornacchie". (. . .) Si mescolò con gli altri. Travestito, alterava il suo modo di parlare. Parlava campano, e diceva: "Sù, sù al traditore!" Se avesse superato le ultime scale ce l'avrebbe fatta. L'attenzione della gente era rivolta al palazzo. Stava superando l'ultima porta, quando uno gli si fece davanti e lo riconobbe, lo afferrò e disse: "Fermo. Tu dove vai?" Gli tolse quel berretto dal capo, ed egli si riconosceva soprattutto dallo splendore prodotto dai braccialetti che portava. Erano dorati: non sembravano oggetti da plebeo. Allora, essendo stato scoperto, il tribuno si rivelò apertamente: mostrò chi fosse. Non poteva più darsi alla fuga. Non vi era soluzione se non quella di rimanere alla mercé, al volere altrui. Preso per le braccia, fu condotto liberamente per tutte le scale senza danni fino al luogo del leone, dove gli altri attendono la sentenza, dove egli aveva condannato altri. Ivi condotto, si fece silenzio. Nessun uomo ardiva toccarlo. Rimase lì per meno di un ora, la barba curata, il volto nero come un fornaio, in giubbetto di seta verde, sceso, coi musacchini 1 dorati, con le calze celestine come un barone. Teneva le braccia conserte. In quel silenzio mosse il viso, guardò di qua e di là. Allora Francesco del Vecchio prese in mano uno stocco, e glielo diede nel ventre. Questo fu il primo. Subito dopo di ciò, fece seguito il notaio Treio, e gli diede la spada in testa. Allora l'uno, l'altro e il resto della gente lo percossero. Chi lo percuote, chi lo minaccia. Non disse nulla. Morì al primo colpo, non provò dolore. Venne uno con una fune e gli annodò entrambi i piedi. Lo gettarono in terra, e lo trascinavano, lo accoltellavano. Lo trapassavano come fosse un setaccio. Ognuno se ne faceva beffe. Pareva loro di stare alla perdonanza 2. Per questa via fu trascinato fino a San Marcello. Là fu appeso per i piedi a un balconcino. Non aveva la testa. Erano rimasti brandelli di pelle lungo la via per la quale era stato trascinato. Aveva tante ferite che sembrava un setaccio. Non vi era parte del corpo senza ferite. Aveva le masse di fuori, grasse. Era orribilmente grasso, bianco come latte insanguinato. Era tale la sua obesità che pareva uno smisurato bufalo, ovvero una vacca da macello. Là rimase appeso per due giorni e una notte. I ragazzi gli lanciavano pietre. Il terzo giorno, su ordine di Giugurta e Sciarretta della Colonna, fu trascinato al campo del Mausoleo d'Augusto. Là si radunarono tutti gli Ebrei in gran numero: non si astenne dall'andare neppure uno. Là fu fatto un fuoco di cardi secchi. Fu messo su quel fuoco di cardi. Era grasso. Per il molto grasso ardeva facilmente da sé. Gli Ebrei erano lì molto indaffarati, accaldati. Attizzavano i cardi, perché [il cadavere] ardesse. Così quel corpo venne arso e venne ridotto in polvere: non ne rimase neppure un pezzetto. Questa fu la fine di Cola di Rienzo, che si proclamò augusto tribuno di Roma, che volle essere il campione dei Romani. (. . .) NOTE Parte d'armadura di dosso, della qual s'è perduto l'uso. 2. - evento religioso, a cui la gente si recava esternando una certa allegria popolare; Franco Sacchetti, in Trecentonovelle (Firenze, 1385-92) scrive: Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a diletto, piú che a perdonanza. (tratto dalla Novella LXXV). |
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