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Cesare Pascarella è uno dei poeti dialettali romani di maggior livello. Il suo nome, tuttavia, è assai meno famoso di quelli di Belli e Trilussa, persino fra la stessa gente di Roma. A questo ha forse contribuito in parte il fatto che il numero delle sue opere è senz'altro minore rispetto al patrimonio artistico lasciatoci dai due poeti anzidetti.
I soggetti preferiti da Pascarella per i suoi sonetti sono soprattutto la storia italiana e il vissuto quotidiano di Roma.
Il poeta nacque durante anni cruciali per la storia d'Italia: dopo tre guerre d'indipendenza, l'unificazione delle molte regioni, da nord a sud, stava gradualmente avvenendo; Roma, ancora sotto il governo del papa, sarebbe stata conquistata dalle truppe italiane non prima del 1870, quando il poeta aveva 12 anni. Questi eventi esercitarono una forte influenza sulla fantasia di Pascarella. Fra le sue opere, un intero poema di venticinque sonetti, Villa Gloria (cioè Villa Glori, ora vasto parco pubblico situato a nord della città), descrive il tentativo di prendere Roma da parte di un manipolo di patrioti, nel 1867; il tentativo finì tragicamente, essendo state le truppe papaline rifornite di un nuovo tipo di fucili da parte degli alleati francesi. La descrizione in dettaglio dei fatti è così realistica e drammatica che, benché in dialetto, quest'opera andrebbe considerata un piccolo poema epico.
Un'opera molto più vasta, intitolata Storia Nostra, composta da 267 sonnetti nei quali si narra della storia d'Italia dalla fondazione di Roma al secolo scorso, rimase incompiuta. Mancano alcune righe nell'ultima parte, e per alcuni versi esistono delle varianti, come se il poeta non ne avesse ancora deciso una stesura definitiva. Anche in questo caso, larga parte del poema è dedicata ai travagliati anni che culminarono nell'unificazione del paese.
L'altro spunto preferito da Pascarella, invece, è la descrizione fedele dei fatti della vita cittadina di tutti i giorni. Pur essendo un soggetto comune anche alla poesia di Belli e di Trilussa, ci sono notevoli differenze fra i sonetti di questi tre poeti.
Belli, senza dubbio, voleva che i suoi spaccati di Roma fossero una satira pungente, tanto contro le classi dominanti del suo tempo che contro il popolino, usando a tale scopo un linguaggio molto crudo, per creare stridenti contrasti, spesso mascherati da fatti e circostanze umoristiche; anche Trilussa, pur usando uno stile assai più pacato, non rinuncia mai al suo senso dell'umorismo, persino nei sonetti ad impronta più lirica, per sottolineare i difetti umani.
Ciò che Pascarella fa, invece, è di descrivere i fatti come sono, senza alcun tipo di valutazione morale o commento personale, quasi fosse un moderno reporter che, scattando una fotografia, fissi fedelmente l'attimo, con risultati di incredibile realismo. Con un po' di immaginazione, la lettura di Pascarella riporta in vita le atmosfere più autentiche delle strade e dei vicoli della Roma fin de siècle.
La scoperta de l'America
L'opera maggiore e più nota di Pascarella, La scoperta de l'America, è una raccolta di cinquanta sonetti, in cui un gruppo di popolani, riuniti all'osteria, discutono della famosa storia di Cristoforo Colombo e di come scoprì il continente americano.
Un membro del gruppo racconta la storia agli amici; nel fare ciò, arricchisce il discorso con coloriti commenti e osservazioni e, ogni tanto, tutti fanno una pausa per una bevuta di vino.
A rendere la storia divertente e originale è che, nella fantasia di queste persone, i fatti si svolgono in maniera molto semplice, quasi infantile, come in una favola i cui ingredienti sono un eroe (Colombo), i cattivi (il re e i suoi ministri), l'avventura sui mari, ed esotiche e misteriose terre lontane. E tutti i personaggi della storia, ovviamente, parlano e si comportano come se fossero romani essi stessi.
Le pagine a seguire contengono l'intero poema in dialetto, con versione italiana a fronte. Sono state aggiunte alcune note esplicative, per meglio comprendere e pienamente gustare la divertente storia della scoperta dell'America, vista attraverso gli occhi del popolo di Roma.
Il dialetto di Pascarella
Benché anteriore a quello di Trilussa, anche il romanesco di Pascarella è assai più mitigato del dialetto "puro e duro" di Gioacchino Belli.
Le doppie consonanti all'inizio dei vocaboli non sono mai espresse per iscritto (co' bone maniere anziché co' bbone maniere, come avrebbe scritto Belli), ed anche molti altri elementi grammaticali sono lasciati alla libera interpretazione del lettore (ad esempio: ci ho, ci avemo, anziché ciò, ciavemo).
In quanto ai tempi verbali, Pascarella è particolarmente attento ad aderire alla lingua del popolo. La terza persona plurale al tempo imperfetto esce quasi sempre in ...veno (anziché in ...vano): bevéveno, annàveno, scoprìveno, e così via. Un carattere assai distintivo di Pascarella, inoltre, è l'uso della contrazione ...orno per le terze persone plurali al passato remoto: arivorno per arrivarono, cominciorno per cominciarono, seguitorno per seguitarono, e così via, nonché tutto un campionario di altre tipiche deformazioni verbali quali scense per scese, vedde per vide, che i veri romani sanno bene non essere affatto invenzioni o licenze poetiche, benché altri autori vi facciano ricorso meno spesso.
"Doppo s'agnede a piazza de la Boccia",
capoverso del secondo di tre sonetti intitolati
Cose der monno, nel manoscritto originale

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