Roma dopo le idi di marzo
riferimento cronologico....... 44 a.C

riferimenti cronologici:
morte di Cesare (idi di marzo).......... 15 marzo 44 a.C.
orazione funebre di Marco Antonio.... 20 marzo



L’aria che si respirava nelle prime ore susseguenti l’uccisione di Cesare era decisamente un’aria di indecisione, di attesa e di paura. Da una parte c’erano i congiurati con i loro timori di una rivolta popolare, tanto che molti di loro si rinchiusero nelle proprie case o, come Bruto e Cassio, all’interno del Campidoglio; dall’altra i sostenitori di Cesare impauriti dalla possibilità di una serie di vendette del tipo di quelle accadute al tempo di Silla e di Mario, da parte del partito senatoriale.

Al centro i tantissimo reduci delle campagne cesariane presenti a Roma, sia per salutare il loro ‘imperator’ in partenza per il regno dei Parti, che per richiedere le terre promesse, e il popolo, l’immensa plebe di Roma, vero ago della bilancia nell’intricata realtà romana di quel drammatico momento.

La giornata passò così, nell’attesa di tumulti e di vendette che non accaddero, e nell’attesa che il popolo prendesse una sua posizione pro o contro i congiurati: eroi che avevano abbattuto un tiranno o vili assassini che avevano ucciso l’amato capo di Stato? Anche al Senato la situazione non era meno complicata, molti dei Padri Coscritti decisero di rimanere equi distanti, preferendo una soluzione diplomatica che accontentasse tutti senza troppi disordini.

Voce di questa volontà fu decisamente Cicerone che nella prima riunione del Senato indetta il 17 marzo, rifacendosi –come ricorda Patercolo- a quanto fecero gli ateniesi al tempo della cacciata dei Trenta Tiranni, propose un "senato consulto" che congelasse la situazione al momento; nessun processo sarebbe stato intrapreso contro i congiurati che potevano così dormire sonni più tranquilli, mentre tutte le leggi e i decreti redatti da Cesare sarebbero stati rispettati, azzittendo così sul nascere anche le prime rimostranze dei veterani che aspettavano la deduzione di nuove colonie promesse loro dal loro "generale".

Le cose sembrarono avviarsi verso una normalità molto labile quando, il 20 marzo, Marco Antonio, console designato per quell’anno e figura di primo piano nel partito popolare, sfoderò il suo asso nella manica.

Chi non conosce l’elogio funebre di Marco Antonio nell’opera di Shakespeare? Il drammaturgo inglese dapprima fa partire il discorso dell’oratore quasi in sordina “…sono qui a ricordare, non ad elogiare Cesare”, ma poi a poco a poco, in un continuo crescendo, si scatena in un susseguirsi di atti di accusa contro i congiurati e i senatori.

Ebbene nella realtà le cose non dovettero andare molto diversamente… salito sulla Tribuna per tessere l’elogio del morto, Marco Antonio, dopo aver letto il giuramento fatto dai Senatori che s’impegnavano a difendere la persona di Cesare, cominciò, a poco a poco, a ricordare tutti i benefici che il popolo aveva avuto dal "dittatore", e i lasciti che egli faceva adesso da morto: oltre ai suoi Orti posti a Trastevere, infatti, Cesare lasciava a ogni cittadino povero la somma di 300 sesterzi.

Poi quando cominciò a mostrare la toga ancora insanguinata con i fori delle 23 pugnalate, il suo intento fu raggiunto.

La folla inferocita cominciò a raccogliere intorno al corpo ogni cosa che trovò nelle vicinanze (persino gli scanni del Senato) e ne creò una pira su cui cremò, all’istante, il corpo di Cesare; gli storici ci tramandano che ci fu quasi una gara a immolare su quel rogo quanto la gente avesse di più caro. Quasi a mo di ex-voto ci furono matrone che gettarono tra le fiamme i loro gioielli, mentre i soldati e i reduci fecero altrettanto con le loro armi; poi, al culmine di quell’esaltazione, qualcuno pensò bene di cominciare la caccia all’uomo e agli averi dei congiurati; si cercò, così, di incendiare le case di Lucio Billieno, di Bruto e di Cassio, mentre il poeta Elvio Cinna scambiato dalla folla per l’omonimo Cornelio Cinna - uno dei congiurati - venne linciato in mezzo alla strada.

I capi dei congiurati e il loro seguito riuscirono in tempo a sottrarsi all’ira popolare fuggendo di corsa dalla città e riparando verso il nord, evitando però per il momento di raggiungere le province che erano state loro accordate dal Senato: Cassio in Siria e Marco Bruto in Macedonia, lasciando la città nelle mani di Marco Antonio, sempre più padrone della situazione. Appoggiandosi ai veterani di Cesare (a cui aveva assegnato delle terre in Campania e in Etruria) e al tesoro pubblico depositato dallo stesso Cesare nel tempio di Opi, (ammontante a circa 700 milioni di sesterzi), Marco Antonio riuscì non solo a pagare tutti i debiti che aveva contratto, ma a "manovrare" tutta la vita pubblica di quei mesi, facendosi un’infinità di clienti e preparandosi alla conquista del potere assoluto ai danni del Senato.

E visto che qualcuno in Senato aveva storto un po’ la bocca, il console si fece conferire con un appello al popolo l’incarico di promulgare le cosiddette "leges juliae" , che gli permisero di mettere in pratica tutta una serie di accordi e di decreti a firma di Cesare, che il dittatore non aveva fatto in tempo a promulgare, tra cui la presunta restituzione al re Deiotaro del regno della piccola Armenia (decisamente un "falso" che portò, nelle tasche di Marco Antonio - secondo i maligni dell’epoca - la somma di 10 milioni di sesterzi).

Documenti che Marco Antonio s’era fatto dare, insieme alla somma di 4000 talenti (quelli che dovevano servire per il lascito ai poveri), dalla vedova di Cesare, Calpurnia.

Come laconicamente scrisse Patercolo (II,60):  “Un console metteva in vendita lo Stato”…tutto ormai, aveva un prezzo.

E la cosa più preoccupante era che nessuno faceva il benché minimo per ribellarsi o per bloccare la situazione che si veniva delineando, tutti erano “indignati ed angosciati”, ma nessuno aveva il coraggio di opporsi.

Solo un paio di mesi dopo il Senato, colpevole di aver lasciato Marco Antonio incontrastato padrone del "dopo-Cesare", sembrò intenzionato a rialzare la testa, cominciando a chiedere chiarimenti sulle carte che il console aveva in mano e che aveva così ben sfruttato. Ma ormai era troppo tardi, anzi per mettere "fuorigioco" le pretese di Emilio Lepido, l’unico che poteva insidiare la sua leadership nel partito cesariano, Marco Antonio decise di allearsi con Cornelio Dolabella, l’altro console designato per quell’anno, e stringendo un patto scellerato divise con lui le province da governare: per se si tenne la Macedonia (dove ad attenderlo c’erano sei tra le legioni meglio addestrate di Roma), per poi decidere di "accettare" la Gallia Cisalpina e il governo di quella Transalpina, mentre al compare assegnò la Siria.

Marco Antonio era ormai sicuro di essere a un passo dall’avere in mano lo Stato, e sicuramente ci sarebbe riuscito se all’orizzonte (leggasi Apollonia, nell’attuale Albania) non comparve la figura di un ragazzo, il diciottenne Gaio Ottavio, nipote di Cesare e da lui adottato, proprio nel testamento.

Il futuro Ottaviano arrivava a Roma inconsapevole di cambiare le sorti del mondo romano…