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La guerra sociale
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Argomenti principali:
L'affermazione di Roma come grande potenza del Mediterraneo, era stata realizzata anche con il decisivo contributo dei suoi alleati italici, i quali avevano partecipato con i propri uomini sia alle grandi vittorie sia alle grande disfatte. Ma questi popoli non si avvantaggiavano dell'accresciuta potenza di Roma, i cui benefici sembravano riservati a coloro che erano in possesso della cittadinanza Romana. Questi alleati, socii (alleati in latino), avevano altresì subito tutte le contraddizioni della grande espansione di Roma, soprattutto avevano pagato la grande crisi dell'agricoltura con lo sviluppo del latifondo e con l'impoverimento della classe contadina. Esisteva quindi una legittima rivendicazione di queste popolazioni a ottenere l'agognata cittadinanza Romana e quindi a godere degli stessi diritti di cui godevano i cittadini dell'Urbe. Ma questa rivendicazione trovava una netta opposizione nei cittadini di Roma, sia in quelli appartenenti all'aristocrazia senatoria sia in larghi strati della plebe cittadina: essere cittadini di Roma rappresentava infatti un grande privilegio. Il tentativo di Caio Gracco di proporre una legge che estendeva la cittadinanza Romana a tutti gli abitanti dell'Italia, aveva provocato la sua fine politica ed indirettamente aveva provocato la sua morte violenta. Ma la questione era ancora aperta e il malumore serpeggiava sempre più evidente, in modo particolare nelle popolazioni dell'Italia centro meridionale. Anche nella classe politica Romana c'era chi si rendeva conto che questo stato di tensione con i popoli Italici avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Così all'inizio del I° secolo a.C., la questione della cittadinanza tornò ad occupare lo scenario politico dell'Urbe. Se ne fece interprete Marco Livio Druso, figlio di quel Marco Livio Druso che era stato il maggiore oppositore di Caio Gracco e della sua proposta di legge. Il figlio era entrato in politica appoggiato proprio dall'ala più conservatrice del Senato, e quindi la sua trasformazione risultò abbastanza sorprendente. Nel 91 a.C. divenuto Tribuno della Plebe, Livio Druso si fece promotore di una serie di leggi a carattere popolare che gli alienarono le simpatie dei conservatori. Ma il vero colpo di scena avvenne proprio con la proposta di estendere la cittadinanza Romana a tutti i cittadini d'Italia. Perché Livio Druso si era spinto fino a questo punto? Forse perché voleva evitare a tutti i costi di arrivare ad una guerra fratricida o forse solo per accrescere il suo potere personale potendo contare, in caso di approvazione della legge su una clientela di enormi proporzioni. Le popolazioni Italiche si erano intanto organizzate in una lega particolarmente agguerrita con una strategia che non lasciava grandi margini di manovra: o la cittadinanza o la guerra. Questa lega si era strutturata in un vero e proprio stato con una capitale, Corfinum (nei pressi dell'odierna L'Aquila) rinominata Italia, con un proprio Senato e addirittura con una propria moneta, nella quale un toro schiacciava la lupa capitolina. Tra i popoli che aderirono a questa alleanza i Marsi, i Peligni, i Sanniti, i Marruccini, i Piceni, i Vestini, i Frentani e gli Irpini. Il loro esercito poteva contare su almeno centomila soldati e tanti validi comandanti. Tra questi spiccavano le figure di Quinto Poppedio Silone, dei Marsi, e Papio Mutilio, dei Sanniti. L'alleanza tra i popoli italici era stata poi rafforzata attraverso lo scambio di ostaggi. Questi popoli erano ormai pronti e determinati alla grande guerra contro Roma, ma avevano deciso di temporeggiare, fidandosi di Marco Livio Druso, a cui avevano giurato eterna fedeltà. E Marco Livio Druso, tra mille difficoltà, tra violente opposizioni e accuse di tradimento, era riuscito comunque a fare concreti passi in avanti, ottenendo consensi sia tra i senatori sia tra la popolazione. Ma quando sembrava che il provvedimento potesse essere approvato dall'assemblea popolare, il suo artefice venne colpito a morte da un sicario che pose fine, ancora una volta in modo violento, ad un tentativo che avrebbe forse evitato una guerra crudele ed inutile. Inutile perché l'emancipazione dei socii rappresentava un passaggio obbligato della grande storia di Roma e che in effetti si sarebbe realizzato pochi anni dopo. Appresa la notizia della morte di Livio Druso, i popoli della lega Italica decisero di rompere gli indugi provocando quella guerra che prenderà il nome di guerra (bellum) sociale. L'episodio scatenante avvenne nella città di Ascoli dove durante una rappresentazione teatrale venne compiuta una strage di cittadini Romani, tra questi il pretore Servilio e il legato Fonteio. Una dichiarazione di guerra esplicita raggiunse il Senato di Roma: era il 91 a.C. e il popolo di Roma si trovò coinvolto in una guerra che avrebbe potuto essere evitata. Una guerra difficile, perché gli italici conoscevano le tattiche e le strategie dei comandanti Romani e avevano lo stesso concetto di disciplina, maturato negli stessi campi di addestramento. E in effetti, nonostante il fatto che a guidare le truppe di Roma ci fossero generali del calibro di Caio Mario, di Lucio Cornelio Silla e di Pompeo Strabone, le sorti della guerra sembravano favorire proprio le truppe italiche facilitate anche dalla maggiore conoscenza dei territori montuosi. Furono numerose le città conquistate dai ribelli tra le quali Nola, Stabia, Literno, Salerno ed Ercolano. Altre città come Acerra e Fermo Piceno, furono sottoposte a lunghi assedi ma riuscirono a resistere. Molte furono le imboscate che provocarono tante vittime tra i soldati romani, lo stesso Caio Mario fu sconfitto da Poppedio Silone, in una battaglia che si svolse nei pressi del fiume Liri. Anche i Romani ebbero le loro vittorie, come Quinto Cecilio Metello Pio che uccise proprio Quinto Poppedio Silone dopo averlo inseguito fino in Apulia, ma la situazione generale restava comunque grave. L'unica cosa che permise a Roma di non capitolare, fu la rinnovata fedeltà degli Etruschi, degli Umbri e delle città Greche dell'Italia meridionale. Fu per la necessità di porre fine a una guerra senza sbocchi che il Senato di Roma nel 90 a.C., su proposta del Console Lucio Giulio Cesare, decise di concedere la cittadinanza a tutti i popoli italici che avessero rinunciato alla guerra. Roma passava di colpo da 400.000 cittadini a quasi un milione. L'aristocrazia senatoria parò il colpo con una sorta di trucco, limitando cioè il potere elettorale dei nuovi cittadini, iscrivendoli in 10 speciali tribù che avrebbero votato dopo le 35 tribù cittadine. Nonostante questa limitazione il provvedimento ebbe l'effetto sperato, la maggior parte dei popoli decise di porre fine alla guerra. Solo i Sanniti non ne vollero sapere e continuarono a sostenere la guerra contro Roma. Ci vollero altri due anni affinché l'esercito Romano, guidato da Lucio Cornelio Silla potesse aver ragione dell'esercito Sannita. Era l'anno 88 a.C. quando la guerra sociale che aveva insanguinato il suolo italico si concludeva definitivamente. Con questo personale successo, Lucio Cornelio Silla approdò alla carica di Console, ottenendo quel prestigio personale, fino allora oscurato da Caio Mario. I due generali erano ormai destinati a scontrarsi per determinare chi fosse realmente il "primo uomo" a Roma. Questo conflitto che assumerà contorni personali ma anche politici (lo scontro tra ottimati e popolari) getterà Roma in un periodo terribile in cui la guerra civile fu in grado di sconvolgere nelle fondamenta la struttura sociale della città, annunciando la fine della Repubblica. |