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Crasso, Pompeo, la
revoca delle leggi sillane
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Argomenti principali:
Lepido, Sertorio e Spartaco avevano rappresentato una minaccia inquietante per Roma, per i suoi ordinamenti e per la sua sicurezza. In questo quadro di incertezza, la repubblica, con la sua costituzione, con i suoi senatori e con i suoi magistrati, aveva dimostrato tutta la sua inadeguatezza a proteggere se stessa contro gli attacchi generati da singoli individui; attacchi che si ripetevano ormai con un'alta frequenza. La convinzione dell'oligarchia senatoria di aver riconquistato, grazie all'opera di Silla, il controllo assoluto del potere politico, si stava dimostrando una grande illusione che si sarebbe del tutto sfaldata nel giro di pochi anni. Di fronte al pericolo la repubblica e l'aristocrazia avevano dovuto ricorrere all'opera di grandi comandanti militari a cui, in spregio della costituzione repubblicana, era stato assegnato un potere immenso, praticamente illimitato, che alla fine diventava un implicito pericolo per le istituzioni repubblicane che quegli stessi uomini erano stati chiamati a difendere. Quegli uomini una volta ottenuti i loro successi in campo militare, non erano certo disposti ad accontentarsi di un pur agognato trionfo: il loro reale obiettivo era il potere politico. E forti proprio del loro potere militare erano in grado di influenzare le istituzioni repubblicane per ottenere incarichi e magistrature, con procedure illegittime non rispettose della costituzione repubblicana. Questo fu il caso di Pompeo Magno e di Marco Licinio Crasso, che forti dei loro successi militari e sopratutto della minaccia costituita dai loro eserciti ancora mobilitati, riuscirono a farsi eleggere consoli nell'anno 70 a.C. nonostante che nessuno dei due, in base alle leggi che regolavano la carriera pubblica, fosse nelle condizioni di essere eletto. In quegli anni le violazioni alla costituzione erano diventate una norma piuttosto che un'eccezione; in ogni caso a proteggere l'aristocrazia senatoria dagli eccessi di questi "uomini forti" esisteva ancora tutta l'impalcatura dei provvedimenti presi da Silla durante la sua dittatura. La contraddizione era evidente: Silla aveva esercitato un potere personale, assolutamente incostituzionale, fornendo un esempio di come un uomo, grazie al suo potere militare, potesse prevalere sulla Repubblica e sulle sue istituzioni. Eppure la sua opera di dittatore era stata concentrata nel creare le condizioni affinché un altro uomo non potesse seguire il suo esempio, legiferando in favore della classe aristocratica e ai danni delle sue classi antagoniste: il ceto dei cavalieri e la plebe. Quindi, chiunque volesse dare l'ultima spallata alle istituzioni repubblicane doveva lavorare per smontare questo complesso di leggi sillane, andando di conseguenza ad intaccare il potere della nobilitas. E proprio su questa strada si indirizzarono Pompeo e Crasso, due uomini che avevano fatto parte dell'entourage del dittatore e che ora, per soddisfare la loro ambizione di potere, erano pronti a demolire tutto ciò che quel dittatore aveva realizzato. La loro ambizione seppe anche andare oltre la loro grande rivalità, in quest'anno di consolato i due agirono in completo accordo e in piena armonia.
Il loro primo obiettivo fu quello di accattivarsi la plebe andando a ripristinare l'antico potere dei tribuni, contro il quale si era concentrata l'azione di Silla. Silla aveva abolito il potere di veto dei tribuni e aveva limitato fortemente il loro potere legislativo subordinandolo all'approvazione del Senato. Pompeo e Crasso, con la legge Pompeia Licinia, ridiedero pieno potere e piena dignità ai tribuni della plebe, guadagnandosi un grande favore popolare e aumentando la loro capacità di manipolare i percorsi legislativi in un verso e in un altro. Per uomini potenti e al contempo ricchi, come i due consoli Pompeo e Crasso, era abbastanza semplice conquistarsi i favori di un tribuno ed usarlo come una mina vagante, facendogli proporre leggi di comodo o facendogli esercitare il diritto di veto di fronte a provvedimenti scomodi. Pompeo del resto appena un anno prima, comportandosi da capo popolo, aveva promesso, davanti ad una folla numerosa e sollecitato da un tribuno originario del Piceno, Lollio Palicano, che avrebbe ripristinato l'antico potere dei tribuni. Una volta essersi accattivati il favore della plebe, Pompeo e Crasso dovevano conquistarsi anche il sostegno degli equites. Il primo provvedimento che andava in questa direzione fu il ripristino delle censure, cosa che puntualmente fu realizzata in quell'anno con la nomina a tale carica di Cneo Lentulo Clodiano e Lucio Gellio Publicola. I censori riprendevano il loro ruolo naturale di controllo sui senatori e sul loro diritto ad esserlo, giudicandone innanzitutto la moralità. Sotto questo profilo i due nuovi censori dimostrarono che la situazione era tutt'altro che allegra, tanto che ben 64 senatori furono espulsi dall'importante assise. Questo fatto confermava implicitamente che negli ultimi anni la nobilitas aveva approfittato della mancanza di controllo per gestire a suo piacimento le liste dei senatori, senza alcun riguardo verso quelle doti di moralità a cui la tradizione romana, il mos maiorum, si richiamava. I censori si occuparono poi di rinnovare i ranghi dei cavalieri e di aggiornare le liste dei cittadini attraverso il censimento della popolazione; censimento a cui potevano accedere anche gli appartenenti alle popolazioni italiche che dopo la guerra sociale avevano acquisito il diritto alla cittadinanza. Dopo questo censimento i cittadini romani diventarono ben 900.000 contro i 450.000 del censimento precedente. L'altro provvedimento preso in quell'anno, che andava in favore del ceto dei cavalieri, fu la riorganizzazione dei tribunali che si occupavano di processi per corruzione, tribunali che dopo i provvedimenti di Silla erano costituiti in modo esclusivo da aristocratici. Il percorso con cui si arrivò alla loro riorganizzazione fu articolato e fu condizionato da uno dei più grandi processi di corruzione di quegli anni, il processo contro Verre, ex governatore della Sicilia, un processo che diede grande popolarità anche a un altro uomo destinato a diventare un grande protagonista della storia di Roma, Marco Tullio Cicerone, che nel processo specifico rappresentò prima la parte civile e poi l'accusa. I rappresentanti della Sicilia si erano rivolti a Cicerone in virtù della stima che li legava a lui, nata quando Cicerone aveva esercitato, proprio in Sicilia, il ruolo di questore, dando prova della sua integrità morale e della sua onestà. Cicerone diventò quindi un alleato dei due consoli, ma sopratutto del ceto dei cavalieri, avendo messo a nudo, con le sue accuse, tutte le ambiguità della classe nobiliare e in particolare il modo in cui la stessa aveva portato avanti i propri incarichi istituzionali e anche il modo in cui aveva esercitato il potere giudiziario. Sul banco degli accusati non era finito solo Verre, con i suoi abusi di potere e con la sua disonestà, ma tutto il sistema di coperture che avevano permesso a quell'uomo di commettere tutti quegli abusi di cui era accusato. Alla fine di quel processo, che si concluse con la condanna di Verre, fu gioco facile per Pompeo e Crasso far approvare la legge proposta da Lucio Aurelio Cotta, che modificava la struttura dei tribunali, i quali non sarebbero stati più composti da soli aristocratici, ma dove gli stessi aristocratici sarebbero risultati addirittura in minoranza. In prima battuta Aurelio Cotta aveva proposto una legge che prevedeva l'esclusione totale degli aristocratici da questi tribunali, ma proprio la mediazione di Pompeo e Crasso aveva salvaguardato la loro presenza, ridotta però a 1/3. Gli altri 2/3 venivano equamente divisi tra i cavalieri e i tribuni erari sempre legati al ceto dei cavalieri. L'azione di Pompeo e Crasso aveva quindi praticamente demolito l'insieme di leggi approvate da Silla, intaccando in modo definitivo la forza e il potere dell'oligarchia senatoria, decretando la prossima fine del sistema repubblicano e aprendo la strada al principato. |