Violenza e giustizia nella Roma di Cola di Rienzo
Anno 1347. Nella città abbandonata dal Papa per Avignone, sconvolta dalle lotte tra i baroni e piena di violenza e omicidi, sale al potere un giovane cittadino: Nicola di Lorenzo Gabrini, detto "Cola di Rienzo". Con un regime popolare ed antinobiliare riuscirà a far tornare la giustizia nella città. Qualche anno più tardi, però, cadrà egli stesso vittima dei suoi magnifici sogni, della sua illusione di poter far rivivere nella città gli antichi fasti imperiali...
I due brevi passi che si presentano (il primo narra di quando Cola non
aveva ancora preso il potere, il secondo racconta le "pratiche di giustizia"
realizzate dal suo governo) sono tratti dal libro scritto da un uomo che potè
assistere direttamente alle imprese del tribuno e di cui purtroppo non si
conosce il nome. Il testo è scritto in romanesco della metà del Trecento, e così
iniziava: "La Vita de Cola de Rienzi Romano, valoroso capitanio, con tutte
le sue prodezze che fece contra li Potienti Baroni de Roma, e della ita che fece
a Papa Chimento in Avignone. Leij, leij, che te farraio narcare le ciglia de le
valentitie see..."
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Cap. V
Fatto questo la Cittate de Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non
havea; onne die se commattea; da onne parte se derobava; dove era luoco de
Verijne se betoperavano; non c'era reparo; le piccole zitelle se ficcavano, e
menavanose a dishonore; la moglie era toita allo marito nello proprio lietto; li
lavoratori quanno invano fora a lavorare erano derobati, dove? su nelle porte de
Roma; li Pellegrini, li quali viengono per merito delle loro anime alle sante
Chiese, non erano defesi ma erano scannati e derobati; li Prieti stavano per
male fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustitia, nullo freno; non c'era più
remedio; onne perzona periva; quello haveva più rascione, che più poteva colla
spada. Non c'era aitra sarvezza se non che ciascheduno se defenneva con parienti
et con amici; onne die se faceva adonanza de armati...
Cap. XXIV
Hora te voglio raccontare aicuna cosa della Iustitia la quale
questo facea. Confesso che quelli che in Roma venno carne e pescie siano li
peiori huomini dello Munno; onne iente suoglio imbrattare. Allhora dicevano
nettamente: questa carne ene de Peco, questa ene de Crapa, questa ene
sediticcia; queste pescie ene buono, questo ene rio. Nettamente ciasche arte
dicea la veritate. Fra li aitri ammasciatori uno Monaco nero della Citate de
Castiello venne a Roma; albergao in Campo de Fiore. Da po' vespero levato da
cena non poteo trovare la cappa, la quale havea lassata fore; era stata furata.
Habbe lo Monaco alquante paravole con l'hoste. L'hoste diceva: " Non me
assennasti cappa ". Non volennolo turbare a trovare la cappa, lo monaco ne ijo
denanti allo Tribuno, e disse: " Missore, io me pusi a cena, lassai riia cappa
de fora allo albergo; credeva che vostra Signoria me la conservassi; hora me ene
furata ; non la pozzo rehavere. Monaco sacrato so, in gonnella me ne vaio
leggieri, e muodo de sparvieri ". A ciò respuse lo Tribuno, e disse: "
Toa cappa salva ene ". Mannao in quello stante li fece tagliare e cosire ricca
cappa de quello panno de quello colore. Hora torna lo Monaco moito contento allo
Albergo, e disse: " Io aio perduta cosa alcuna; ecco mea cappa ". Lo Notaro
dello Tribuno scrisse li confini dello luoco, e se la rovina sea maturata
non fusse, ne traeva più de mille fiorini. Nello terreno dello Castiello de
Capranica fu arrobato uno Vetturale; be li fu tuoito uno mulo et una soma
d'uoglio. Per buona fede lo Conte Vertuollo, de cui era la Signoria dello
Castiello, mannao per l'uoglio trenta, e quattrociento fiorini pacao per
connannatione che male guardao lo paese. Ancho uno corrieri li portao lettere;
dormenno in sio albergo de notte un aitro corrieri l'ammazzao et toizeli soa
moneta. Essenno lo malefattore preso, fu sotterrato vivo, e de sopra de esso
fuosso fu messo l'occiso.