La Leggenda del "Ratto delle sabine"
(riferimento cronologico: 753 a.C. - 716 a.C.)

Romolo, il primo Re di Roma, si occupò di fortificare ed espandere la città, accogliendo un po’ tutti gli sbandati delle zone limitrofe. Ma questo generò un problema: Roma era soprattutto formata da uomini e gli abitanti delle città vicine si rifiutavano di dare le proprie figlie in sposa ai romani, che avevano la fama di essere zotici e violenti.

Allora Romolo decise di giocare d’astuzia. Durante i festeggiamenti chiamati Consualia, che i romani dedicavano al Dio Conso e che si svolgevano nella valle del Circo Massimo fuori cioè delle mura fortificate, Romolo invitò il popolo sabino di Curi, con in testa il loro re Tito Tazio. Chiaramente invitò anche le loro donne e bambini.

Ad un segnale convenuto i romani rapirono le giovani donne e le portarono con la forza dentro le mura della città.

I sabini non la presero molto bene; tornarono al loro villaggio, si armarono e ritornarono a Roma decisi a vendicarsi dell’affronto subito e con il chiaro intento di riprendersi le proprie figlie.

Riuscirono a penetrare nella città fortificata, grazie al tradimento di una giovane fanciulla romana, Tarpeia, che era stata messa a guardia di una porta sul Campidoglio. In cambio del tradimento, la fanciulla chiese ai sabini “quello che loro portavano alle braccia”, con chiaro riferimento agli ori ed ai gioielli, ma loro la ripagarono lanciandole addosso i propri pesanti scudi, uccidendola. Alcuni definirono Tarpeia un’eroina, ipotizzando che la sua richiesta fosse nient’altro che uno stratagemma per privare i sabini dei loro scudi, fondamentale arma difensiva, e che loro quando se ne resero conto la uccisero. Fatto sta che il luogo dove venne uccisa prese il nome di rupe Tarpeia e, per molti anni a seguire, da quella rupe vennero gettati tutti coloro che si macchiarono di gravi delitti.

La battaglia infuriò all’interno della città, finché proprio le fanciulle rapite si presentarono ai combattenti vestite di nero, invocando la pace. Evidentemente non volevano diventare né orfane né vedove; con questo gesto legittimarono il loro legame con i romani. La battaglia si fermò e venne stipulato un trattato di pace e di alleanza il quale prevedeva che i sabini sarebbero entrati a far parte a tutti gli effetti della “civitas” romana, che i due re (Romolo e Tito Tazio) avrebbero governato insieme e che i cittadini di questa nuova realtà si sarebbero chiamati romani quiriti (dove quiriti derivava dal fatto che i sabini si sarebbero stabiliti sul colle Quirinale, anche se altri dicono che quiriti derivi da curiti, nome della tribù di Tito Tazio).

Sempre guardando al di là di questa storia leggendaria, possiamo supporre che i romani di stirpe latina ed i sabini strinsero un patto di alleanza, probabilmente in funzione anti-etrusca, sancito attraverso un matrimonio. Un’alleanza che resse alla prova dei fatti, considerando l’alternanza tra re latini e sabini e l’esclusione iniziale degli etruschi dal consiglio degli anziani, e che rappresentò per Roma un momento importante di crescita.

L’episodio del “ratto” rimase molto impresso nella mente dei romani, tanto che da lì in avanti tutti i matrimoni vennero celebrati con un rito che ricordava il rapimento delle fanciulle sabine. Dopo il banchetto nuziale, i due sposi venivano accompagnati a casa da tutti i parenti ed amici. Durante il percorso la sposa camminava vicino al padre. Ad un certo punto lo sposo simulava il rapimento della sposa portandola via con la forza e trascinandola, mano nella mano, per alcuni metri.

Anche l’usanza, in essere ancora oggi, di varcare la soglia di casa con la sposa in braccio, ricorda appunto il momento in cui le fanciulle sabine varcarono le mura della città contro la loro volontà.