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Pompeo e la campagna
d'oriente
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riferimento cronologici:
Argomenti principali:
La pirateria era un fenomeno che in quegli anni aveva assunto proporzioni inquietanti e rischiava di creare gravi danni all'economia Romana, penalizzando i suoi commerci marittimi e rendendo particolarmente insicure le sue province orientali. Gli effetti della pirateria rendevano questo fenomeno particolarmente inviso al ceto dei cavalieri che dai traffici marittimi e dai commerci e gli appalti nelle regioni orientali traevano importanti profitti. Tra le cause che avevano reso il fenomeno della pirateria così diffuso si può porre in evidenza la crescita dell'economia servile e quindi la forte domanda di schiavi che veniva proprio dalla società Romana. La riduzione in schiavitù dei prigionieri di guerra e di coloro che non erano in grado di pagare i propri debiti, non era sufficiente a far fronte alla crescente domanda di manodopera servile e quindi i pirati con le loro scorrerie sulle coste orientali, diventavano una fonte di approvvigionamento di una risorsa considerata sempre più preziosa, dando vita ad un fiorente "mercato nero". Un'altra causa era sicuramente più politica, infatti il fenomeno della pirateria veniva "alimentato" da alcuni monarchi asiatici, come ad esempio Mitridate, proprio in funzione antiRomana. A favorire il fenomeno l'indubbia difficoltà da parte di Roma di controllare e di mantenere sicura un'area geografica sempre più estesa: un chiaro effetto negativo della sua rapida espansione nel bacino del Mediterraneo. Roma quindi era sempre più danneggiata dai pirati e sempre di più nella società Romana cresceva l'ostilità nei confronti della pirateria e la volontà di porre fine in modo radicale a questo fenomeno. Il ceto dei cavalieri colpevolizzava l'aristocrazia per la sua palese incapacità di fronteggiare questa piaga. Del resto i pirati si facevano sempre più intraprendenti e con le loro navi si erano spinti sulle coste della penisola italiana e addirittura nel porto di Ostia; in questo modo oltre ai pesanti danni economici, le azioni della pirateria avevano un effetto psicologico sulla popolazione dell'Urbe che subiva il clima di insicurezza generato dai pirati. Importante l'episodio che vide protagonista il giovane Caio Giulio Cesare, rapito e taglieggiato dai pirati. Benché la vicenda si fosse conclusa con l'annientamento della banda di fuorilegge, tramite un'azione vendicatrice guidata dallo stesso Cesare, il rapimento del giovane nobile aveva creato scalpore e quindi aveva contribuito a generare quella sensazione per cui nessun cittadino Romano poteva sentirsi al sicuro fino a che la minaccia della pirateria non fosse stata definitivamente debellata. Tutti i tentativi fatti dall'aristocrazia senatoria in questa direzione si erano conclusi in modo pressoché fallimentare e non avevano inciso sul fenomeno nella sua complessità. Ci aveva provato nel 78 a.C., il governatore della Cilicia Publio Servilio Vazia, e ad onor del vero aveva ottenuto anche dei discreti successi, al punto da conquistarsi il titolo di Isaurico per aver sottomesso gli Isauri, ma realisticamente non aveva debellato la pirateria. I pirati eliminati da una parte ricomparivano da un'altra e per sconfiggerli sarebbe stato necessaria un'azione congiunta e coordinata di tutti i governatori della zona oppure la creazione di un supergovernatore del Mediterraneo con un incarico esteso ben focalizzato. Nel 74 a.C. un tentativo era stato fatto con Marco Antonio (figlio d'arte, suo padre nel 102 a.C. aveva ottenuto alcuni successi contro i pirati della Cilicia), a cui era stato concesso un imperium di 3 anni, ma la sua azione aveva forse creato più danni dei pirati stessi. Dopo alcuni discutibili successi su piccole flotte che battevano le costa della Liguria e della Spagna, si recò nel Peloponneso dove si distinse più per i saccheggi per le effettive azioni contro i pirati. Ma il peggio doveva ancora dimostrarlo e lo fece quando tentò di assalire Creta, rea di favoreggiamento nei confronti dei pirati a cui forniva approdi sicuri e strategici: Marco Antonio fu sconfitto e dovette accettare una pace umiliante che il Senato di Roma si rifiutò di accettare. A Marco Antonio anche la beffa di essere definito dai suoi concittadini, il Cretico, in ricordo delle sua totale disfatta. Certo Marco Antonio, quando aveva iniziato la sua avventura non disponeva di grandi mezzi, ma questo rappresentava solamente un'attenuante per un uomo che aveva dimostrato sul campo tutti i suoi limiti. L'aristocrazia aveva tirato un sospiro di sollievo quando nel 73 a.C., uno dei suoi esponenti di spicco e cioè Lucio Licinio Lucullo, aveva riportato importanti successi nella lotta contro Mitridate. In qualità di governatore della Cilicia aveva riportato l'ordine in una regione che rappresentava il cuore della pirateria. Aveva messo sotto pressione anche Tigrane, che il quel momento controllava la Cilicia Piana, e in effetti le scorribande dei pirati si erano ridotte in modo consistente. Ma quando nel 69 a.C., Lucullo, con l'intenzione di conquistare l'Armenia, si era spinto nell'interno, lasciando sguarnite le coste, il fenomeno della pirateria era ripreso fiorente. E in quel periodo era avvenuto uno degli episodi più inquietanti, quando un'intera flotta era stata sequestrata dai pirati nel porto di Ostia. La disillusione provocata da Lucullo, aveva fornito il colpo mortale all'arisotcrazia, sempre più incalzata dalla plebe, interessata alla sicurezza, e dagli equites, interessati agli affari delle province orientali. La volontà di ricorrere all'uomo forte a cui concedere un imperium senza limiti per una battaglia radicale, era diventata preponderante nel popolo Quirita che non aveva dubbi su chi fosse il campione che avrebbe liberato i mari dalla piaga dei pirati. Quell'uomo era il cavaliere Cneo Pompeo Magno, l'uomo che aveva sconfitto prima Lepido, poi Quinto Sertorio e che aveva inferto il colpo mortale agli schiavi che avevano seguito Spartaco nella sua epica avventura. Bisognava però superare l'ostilità dell'aristocrazia che, nonostante fosse certa che Pompeo avrebbe saputo raggiungere l'obiettivo, era spaventata dall'idea di conferire eccessivi poteri militari ad un uomo ormai troppo potente e che godeva di una tale ascendente sul popolo Romano.
Fu il tribuno Aulo Gabinio, legato segretamente a Pompeo, ad interpretare il sentimento popolare e a fornire il colpo decisivo contro la nobiltà. Fu infatti proprio lui a presentare una legge che creava la figura di un supermagistrato dotato di pieni poteri contro i pirati. Un magistrato che avrebbe goduto di un imperium illimitato nel tempo e che avrebbe governato su tutto il mar Mediterraneo ma anche su tutti i territori costieri che si affacciavano su di esso per una profondità di 70 chilometri (quindi anche Roma ricadeva in questo imperium speciale, essendo distante appena 25 Km. dal mare). A lui si concedevano mezzi mai concessi prima ad alcun generale: nella proposta di legge si faceva riferimento a 500 navi, 25 legioni, 15 legati, una somma immensa solo per l'allestimento dell'operazione e poi la possibilità di disporre delle casse dello stato e di gestire i guadagni dei territori conquistati. Il tribuno aveva fatto poi esplicito riferimento a Pompeo come l'unico Romano in grado di esercitare quel comando, mentre lo stesso Pompeo faceva finta di essere disinteressato a vedersi assegnato "un simile fardello". La proposta di legge scatenò un putiferio in Senato, Gabinio stava proponendo di andare oltre alla figura del dittatore, che Roma aveva utilizzato in momenti eccezionali e per periodi limitati. Il potere che sarebbe stato conferito a Pompeo era paragonabile a quello di un imperatore che avrebbe potuto esercitare il suo potere sulla maggior parte dei territori sotto l'influenza di Roma e addirittura su Roma stessa, per un tempo indefinito. Contro la proposta di legge si schierarono in modo deciso gli ottimati guidati da Quinto Lutazio Catulo, Quinto Ortensio e Calpurnio Pisone. Marco Tullio Cicerone rimase in silenzio, senza esprimere un parere, mentre Caio Giulio Cesare parlò in favore del provvedimento. Contro il provvedimento, gli ottimati tentarono l'arma del veto tribunizio, ma Roscio Otone si limitò a proporre una condivisione dell'imperium, mentre Trebellio pose inizialmente il veto, ma poi lo ritirò di fronte alla minaccia di essere destituito. E così nel 67 a.C, la proposta di Aulo Gabinio divenne legge. Pompeo, che aveva atteso la decisione nella sua villa di Albano rientrò a Roma durante al notte e si mise subito a lavorare per preparare la spedizione. Divise il bacino del mediterraneo in settori, ognuno dei quali assegnato ad un legato. Per lui si era riservato il settore più importante, quello decisivo e cioè quello che includeva Creta e la Cilicia. Questa strategia si dimostrò subito vincente, le navi dei pirati anche quando riuscivano a sfuggire ad una pattuglia, finivano per essere catturate da un'altra e la sicurezza del Mediterraneo aumentava in modo tangibile. Pompeo, che si dimostrava generoso con chi si arrendeva, specialmente se forniva la propria collaborazione, mieteva successi senza neanche aver bisogno di combattere: erano in tanti ad arrendersi spontaneamente a lui. Dopo aver concesso a tutti il tempo necessario per maturare la decisione di consegnarsi a lui, Pompeo passò all'azione contro gli irriducibili e in poco tempo ripulì le coste della Cilicia e della Licia conquistando e distruggendo gli avamposti e le fortezze dei pirati; in appena 3 mesi Pompeo aveva ottenuto un successo strepitoso contro i pirati e aveva portato a compimento il suo incarico: quasi 1000 le imbarcazioni catturate o distrutte. La sua stella brillava sempre più fulgida e quasi isolata nel firmamento Romano e anche il tentativo dell'aristocratico Quinto Cecilio Metello di accaparrarsi parte del merito della vittoria, conquistando e pacificando Creta, ignorando l'imperium di Pompeo, non aveva certo prodotto grandi problemi all'imperatore del Mediterraneo. Metello era stato vicino a scontrarsi con Ottavio, legato di Pompeo, ma l'intervento del comandante aveva evitato lo scontro fratricida. Il patetico tentativo di Metello è emblematico della situazione in cui si trovavano gli ottimati che uscivano sconfitti, al pari dei pirati, da questa campagna trionfale di Pompeo, il quale dedicò alcuni mesi a consolidare il suo successo, compiendo un'opera di pacificazione della zona che avrebbe resistito a lungo. Invece di sottoporre a repressione le zone da cui provenivano gran parte dei pirati, diede il via ad un profondo programma di ricostruzione, dando alle popolazioni l'opportunità di dedicarsi ad attività economiche lecite. Vennero create nuove città, vennero ricostruite quelle distrutte, l'opera di colonizzazione intrapresa da Pompeo trasformò i pirati in contadini. La campagna del generale, trionfale sul piano militare, si trasformava in un grande successo sul piano amministrativo. Il suo lavoro dopo pochi mesi sembrava giunto al termine, ma Pompeo non aveva intenzione di accontentarsi: il suo obiettivo era l'Asia dove Lucullo, dopo alcuni successi iniziali, si era impantanato nel tentativo di conquistare l'Armenia e aveva perso anche l'appoggio dei propri soldati. Per ottenere il comando, Pompeo aveva bisogno di sostegno politico e sopratutto del solito intervento di un tribuno della plebe. Non solo, per evitare di essere accusato di attentare alla Repubblica, il generale doveva evitare di essere coinvolto direttamente in questa operazione politica, continuando a simulare quell'atteggiamento di disinteresse che aveva già messo in mostra quando era stato incaricato di combattere i pirati. Il tribuno della plebe questa volta era Manilio, il quale propose di estendere il comando assegnato a Pompeo dalla legge del tribuno Aulo Gabinio, anche alle due province orientali: Asia-Cilicia e Bitinia-Ponto. Tra le prerogative concesse a Pompeo in quest'ambito era quella di pacificare la zona e quindi di chiudere definitivamente il conto con Mitridate e Tigrane. Se questa legge fosse passata, sarebbero stati implicitamente esautorati i due attuali governatori, Marcio Re e Acilio Glabrione, e soprattutto Lucio Licinio Lucullo. A favore della legge si schierarono Caio Giulio Cesare, che usava Pompeo per scardinare il potere aristocratico, e stavolta anche Marco Tullio Cicerone, che dedicò al tema una grande orazione che elogiava le caratteristiche di Pompeo. In questa orazione Cicerone cercava di tranquillizzare coloro che erano preoccupati per il futuro della Repubblica, ricordando che non era la prima volta che di fronte a gravi problemi la Repubblica ricorreva a grandi uomini: Mario e Scipione Emiliano erano due esempi recenti. Contro la legge, si schierarono i soliti Ortensio e Catulo, i quali tentarono di opporsi con decisione a un provvedimento che consegnava a Pompeo, un cavaliere, un potere immenso che, a loro giudizio, il generale avrebbe rivolto prima o poi contro la stessa Roma. La loro opposizione cadde nel vuoto, tutte e 35 le tribù votarono all'unanimità per la proposta di Manilio che venne quindi trasformata in legge, nel Gennaio dell'anno 66 a.C..
Pompeo dall'oriente continuò con la sua recita e quando seppe della nuova nomina fece addirittura finta di arrabbiarsi seriamente, ma senza perdere ulteriore tempo si mosse verso i territori provinciali dove avrebbe incontrato Lucullo per dare il via al passaggio di consegne. L'incontro si svolse in Galazia e inizialmente fu un incontro dai toni amichevoli, ma quando Pompeo espresse al collega la sua intenzione di trattenere in Asia gran parte delle sue truppe, tra i due si creò una forte tensione. Lucullo voleva rientrare con le sue legioni, per godersi quello che considerava un meritato trionfo, ma alla fine dovette accontentarsi di poco più di 1000 uomini, i più malandati, con i quali avrebbe dato vita a un modestissimo corteo trionfale. Pompeo quindi diede il via alla sua campagna d'oriente a capo di 12 legioni (60.000 fanti) e 4000 cavalieri; una situazione ben diversa da quella con cui si era dovuto confrontare Lucullo. Non solo, il comandante aristocratico aveva incontrato i due monarchi asiatici al massimo delle loro potenzialità militari, ora Pompeo li trovava fortemente indeboliti e a capo di eserciti improvvisati, ricostruiti sulle ceneri dei precedenti, quelli sconfitti a più riprese dallo stesso Lucullo. Inoltre Pompeo godeva ormai di un prestigio tale per cui i suoi nemici al solo sentirne parlare perdevano il loro coraggio e la loro determinazione, mentre i suoi soldati, anche quelli che avevano sfiduciato Lucullo, erano pronti a seguirlo in capo al modo, convinti di essere invincibili. "Il Grande" si dimostrò inoltre un abile politico, giocando sulle divisioni che si stavano generando nella regione. Il figlio di Tigrane mostrava segni di insofferenza e ribellione rispetto al padre, dopo che si era imparentato con il Re dei Parti, Frate III Theos, di cui aveva sposato una figlia. Questo matrimonio doveva servire a consolidare il rapporto tra Tigrane padre e il Re dei Re, ma la voglia di indipendenza del giovane suggeriva a Pompeo una grande opportunità. Infatti il comandante Romano incontrò il Re dei Parti, gli ribadì l'amicizia del popolo Romano e lo convinse a schierarsi con suo genero nella sua disputa contro il padre. Tigrane a sua volta, preoccupato dall'evolversi del situazione e del nuovo fronte che si andava aprendo, rifiutava di sostenere Mitridate nel suo eventuale conflitto contro Pompeo. Mitridate sentendosi isolato e impotente, tentò di trovare un accordo con Pompeo, ma di fronte alle condizioni poste dal comandante Romano dovette retrocedere, incontrando anche una forte opposizione interna. Pompeo passò all'azione: in poco tempo riuscì a circondare le armate pontiche e a porle sotto assedio. Ma una notte Mitridate riuscì a eludere l'assedio e ad allontanarsi. La sua fuga servì solo a ritardare lo scontro, che avvenne dopo appena 3 giorni di inseguimento, con l'esercito Romano in grado di raggiungere e superare i soldati del Ponto e a chiuderli dentro una gola. Mitridate perse più di 10.000 uomini, ma ancora una volta riuscì a salvare la pelle e con i pochi superstiti prese la via del nord, riparandosi nella Colchide, ai piedi del Caucaso. In pochi mesi (autunno del 66 a.C.), Pompeo era riuscito dove sia Silla sia Lucullo avevano fallito, e cioè aveva costretto il Re del Ponto ad abbandonare l'Asia. Con i suoi uomini, colui che era giustamente soprannominato "il Grande", si diresse in modo deciso verso Artaxata, la capitale tradizionale dell'Armenia, che era diventata l'obiettivo non raggiunto di Licinio Lucullo. In quella città si era appena conclusa una battaglia tra Tigrane e suo figlio, alla fine della quale il padre aveva prevalso riconquistando il controllo della capitale. Indebolito da quella guerra fratricida, il monarca armeno non era certo in grado di resistere all'assalto di Pompeo e quando venne a sapere che il generale si trovava a pochi chilometri dalla sua capitale prese una decisione che avrebbe stravolto la situazione della regione. Tigrane si presentò all'accampamento di Pompeo e con una atto di chiara sottomissione mise la corona ai suoi piedi. Pompeo a quel punto tra lo stupore dello stesso Tigrane, lo fece rialzare, gli rimise la corona in testa e lo accolse tra coloro che in futuro avrebbero goduto dell'amicizia del popolo di Roma. Durante il pranzo, Tigrane fu messo a conoscenza delle condizioni a cui avrebbe dovuto sottostare per garantirsi questa amicizia, condizioni pesanti, ma che in quel momento rappresentavano il meglio che il monarca armeno poteva aspettarsi. Oltre ad un consistente contributo economico, Tigrane avrebbe dovuto rinunciare a tutti i territori conquistati con la forza, innanzitutto la Cappadocia, poi la Siria, la Fenicia e la Sofene. La Sofene sarebbe andata a suo figlio e con questa donazione Pompeo pensava di chiudere la disputa familiare tra il sovrano e il suo giovane figlio. Ma il figlio di Tigrane non era disposto ad accettare questo contentino, quando le sue ambizioni riguardavano l'intero regno posseduto dal padre, e così oppose il proprio rifiuto a Pompeo che per tutta risposta lo fece arrestare. Il provvedimento scatenò la reazione del Re dei Parti, ma Pompeo si dimostrò insensibile alle sue richieste; in fondo ora che aveva scacciato Mitridate e trasformato Tigrane in un fedele alleato di Roma, Pompeo non aveva più bisogno di un rapporto privilegiato con Frate III Theos. In fondo la rivalità tra i due sovrani sarebbe comunque tornata a vantaggio di Roma e l'alleanza con Tigrane avrebbe permesso di frenare l'ambizione del Re dei Re. Tigrane dimostrò la sua soddisfazione fornendo un tributo speciale per i soldati Romani, ognuno dei quali ricevette una somma in denaro, diversificata in base al grado. A quel punto Pompeo doveva regolare la questione con Mitridate e così, trascinando in catene il giovane figlio di Tigrane, si diresse verso nord, sulle orme dell'ex monarca del Ponto. Seguì il corso del fiume Cyrus e nel suo viaggio si imbatté in popolazioni che si dimostrarono particolarmente ostili, anche perché fomentate dallo stesso Mitridate. Gli Albani e gli Iberi tentarono di fermare l'avanzata di Pompeo, ma il risultato fu la loro disfatta e il loro annientamento. Il loro sacrificio permise però a Mitridate di fuggire ancora, costringendo Pompeo a tornarsene nel Ponto per preparare una nuova impresa: la conquista della Siria. Il comandante spese gli ultimi giorni del 66 a.C., nell'organizzare l'area sotto il suo controllo dando vita anche ad un concilio di Re, nel quale dettò le sue condizioni. A questo concilio non partecipò il Re dei Parti, a cui Pompeo in risposta negò il titolo di Re dei Re. Il rapporto tra i due si faceva sempre più difficile anche perché Pompeo prese posizione a favore di Tigrane nella contesa tra il monarca armeno e il Re dei Parti, sul possesso della Corduena. Pompeo la fece occupare dal suo legato Lucio Afranio e poi l'assegnò di autorità a Tigrane. Nell'anno 64 a.C., Pompeo mandò il suo legato, sempre lui, Lucio Afranio, a occupare la Siria, completando il processo di Romanizzazione del Mediterraneo, dal quale rimaneva escluso solo l'Egitto che restava un Regno indipendente. Pompeo impiegò quell'anno e il successivo a completare la pacificazione dei nuovi territori conquistati intervenendo con la solita determinazione e anche, quando serviva, con la sua abilità politica. Poi decise di decidere personalmente il destino di Israele, una regione confinante con la Siria i cui abitanti, particolarmente risoluti, diventavano implicitamente un pericolo per i nuovi possedimenti Romani. Roma aveva sempre avuto un buon rapporto con quel paese, alcuni trattati avevano regolato i rapporti di buon vicinato, ma ora alcune dispute dinastiche creavano una situazione di instabilità che non era ben vista da Pompeo, il quale pensava comunque di sfruttarla a suo vantaggio. E infatti intervenne pesantemente nella contesa dinastica tra i due figli del Re Alessandro Ianneo e della Regina Alessandra, Ircano e Aristobulo, i quali rivendicavano entrambi il diritto di ereditare la corona. Nella disputa si erano inseriti anche i Farisei, un'importante associazione religiosa, che volevano sostituire la monarchia con un governo di carattere religioso. Pompeo prese decisamente le parti di Ircano, forse perché considerato il più debole e quindi il più influenzabile. Di fronte al rifiuto di Aristobulo di accettare le sue decisioni sulla questione, Pompeo marciò su Gerusalemme, le cui porte gli furono aperte dai seguaci di Ircano. I fedeli di Aristobulo si rifugiarono nella rocca fortificata dove sorgeva il tempio di Geova. Le guarnigioni Romane iniziarono la manovra d'assedio concentrando i loro attacchi durante i sabati, quando, nonostante la situazione di emergenza, i suoi avversari si riposavano secondo i canoni della loro religione. Dopo tre mesi di assedio, le truppe assedianti aprirono un varco nelle mura, compiendo un'autentica strage: ben 12.000 uomini persero la vita intorno al tempio di Geova. Pompeo entrò nel tempio, ma dimostrò profondo rispetto nei confronti della sacralità del luogo, riuscendo in quel modo a garantirsi la stima dei Farisei, ai quali aveva dimostrato che Roma era in grado di rispettare la loro religione monoteista. In ogni caso, il conquistatore Romano, nell'autunno del 63 a.C., aveva messo fine all'indipendenza dei Giudei, estendendo la sovranità di Roma anche su quelle terre remote.
A quel punto la sua intenzione era di puntare sull'Egitto, ma mentre si trovava a Gerico ricevette una notizia inaspettata e cioè la morte di Mitridate, il grande nemico di Roma. Per paradosso, dopo essersi sottratto più di una volta al castigo di Roma, Mitridate si era suicidato di fronte alla ribellione della sua armata, una ribellione guidata da suo figlio Farnace. Era successo nell'estate del 63 a.C., mentre Pompeo era impegnato nell'assedio di Gerusalemme: Mitridate si stava organizzando per attaccare nuovamente le guarnigioni Romane del Ponto, quando aveva saputo che suo figlio, contrario alla spedizione, era stato incoronato Re dai suoi stessi uomini che non si fidavano più di lui. Mitridate si avvelenò, ma poi chiese a un suo servo, il gallo Bituito, di mettere fine alle sue sofferenze con un colpo di spada. Farnace inviò a Pompeo un atto di sottomissione, che chiaramente il comandante Romano accettò. Nel tripudio generale, lo stesso Pompeo annunciò alle sue truppe la fine della guerra: dopo la sottomissione di Tigrane e la morte di Mitridate non c'era più ragione di restare nei territori asiatici. In appena quattro anni, Pompeo aveva risolto il problema dei pirati, pacificato la zona, esteso i domini di Roma e soprattutto aveva eliminato il pericolo legato agli antichi e irriducibili nemici di Roma. L'unica situazione preoccupante restava il rapporto con i parti, che in quegli anni si era addirittura deteriorato. Ma per adesso la situazione era sotto controllo; Tigrane avrebbe contribuito a contenere le loro mire espansionistiche. Pompeo da lì a poco tempo (62 a.C.) sarebbe tornato a Roma. Ma con quali intenzioni? Questa era la domanda che si ponevano i cittadini dell'Urbe e soprattutto gli uomini politici di Roma. Pompeo era un uomo sempre più potente, disponeva di un esercito potentissimo e soprattutto fedele, riscuoteva un grande consenso popolare ed era appoggiato dai ricchi cavalieri, che grazie a lui potevano continuare a sviluppare i loro affari redditizi. Perché un uomo così potente e ambizioso avrebbe dovuto rimettere i suoi poteri nelle mani dei senatori e avrebbe dovuto inchinarsi alla costituzione repubblicana? Per conoscere la risposta, i senatori di Roma avrebbero dovuto attendere il suo ritorno in Italia, mentre il popolo Quirita si preparava ad accoglierlo tra tutti gli onori e a partecipare alla grande cerimonia di Trionfo che avrebbe caratterizzato il suo rientro in città. |